domenica 2 novembre 2014

Quanto dobbiamo essere spaventati da Ebola

















Il mio primo post lo dedico all’ emergenza che sta focalizzando l’ attenzione di molti commentatori  e tiene con il fiato sospeso milioni di persone per i possibili sviluppi: mi riferisco all’ epidemia di ebola. E’ una vicenda che ritengo paradigmatica di come il mondo sia ancora largamente impreparato a gestire emergenze globali, nonostante e probabilmente anche a motivo di precedenti crisi che hanno tenuto banco negli ultimi decenni, a partire dall’ emergenza del virus H5N1, della Sars, della pandemia da virus H1N1. Il fatto che tutte queste situazioni potenzialmente pericolose si siano risolte in una bolla di sapone, induce l’ opinione pubblica mondiale e anche le istituzioni che le rappresentano ad una sorta di assuefazione, con il risultato che ogni nuovo pericolo che si affaccia all’ orizzonte rischia di essere in definitiva banalizzato. Non si riflette invece a sufficienza sul significato di queste crisi ripetute in tempi ravvicinati e sul messaggio, che non può sfuggire ad osservatori attenti, di una fragilità dell’ ecosistema mondiale nei confronti di un numero crescente di minacce che trovano un terreno favorevole nella rottura degli equilibri planetari. Se una persona si ammala sempre più spesso sarà portata a pensare che il proprio organismo si sia indebolito e cercherà delle spiegazioni e delle possibili soluzioni, ma se è il mondo ad essere vittima di un numero sempre più grande di emergenze ambientali, climatiche, epidemiche ci si allarma solo di fronte ai singoli episodi per poi proseguire spensieratamente lungo un crinale che non si sa dove possa condurre.

Venendo ad ebola, le notizie degli ultimi giorni sembrano essere indicative di una svolta positiva. Vi sono infatti report e dichiarazioni di funzionari dell’ OMS  che dimostrerebbero come in Liberia, il paese più colpito, ci sia finalmente un declino nel numero dei casi, dimostrato dai letti vuoti nelle cliniche, dal minor numero di casi confermati e da un calo delle sepolture . Non è il caso di abbassare troppo prematuramente la guardia,  però è plausibile che gli sforzi prodotti dalla comunità internazionale nell’ invio di uomini e materiali e una maggiore efficacia delle campagne di sensibilizzazione della popolazione stiano producendo dei risultati concreti. Non va però dimenticato che se si è arrivati a questo punto lo dobbiamo all’ inerzia delle nazioni occidentali, piuttosto restie nel prendere sul serio la minaccia posta dall’ epidemia rampante, almeno fino a quando ad essere minacciati sono stati gli interessi dei paesi forti, che hanno capito che una destabilizzazione dell’ area rischiava di ripercuotersi su tutti gli equilibri internazionali. Inerzia che ha coinvolto la stessa OMS, che ha dovuto fare autocritica di fronte alla negligenza e pigrizia di suoi funzionari regionali nel corso delle fasi iniziali della crisi. E’ cosi che un’ epidemia partita da un bambino di 2 anni rimasto infetto a dicembre dello scorso anno nelle foreste della  Guinea e che poi da un primo focolaio a marzo, sempre in Guinea, ha iniziato a propagarsi alle regioni limitrofe, prima della Liberia e poi in Sierra Leone, si è estesa fino a raggiungere gli attuali livelli. Un’ epidemia che avrebbe potuto essere contenuta abbastanza agevolmente se si fosse intervenuti in maniera decisa nelle prime fasi e che invece è diventata una catastrofe umanitaria di cui solo adesso, forse, si incomincia ad intravedere una fine. I numeri sono impressionanti e superano di gran lunga quelli dei precedenti focolai. L’ ultimo bilancio del 31-10  parla di 13657 casi e 4951 decessi, con   521 operatori sanitari coinvolti di cui 272 sono deceduti.  Come confronto più vicino numericamente possiamo citare l’ epidemia in Congo nel 1976 con 280 morti ( 318 casi) nel Congo nel 1976 e quella in Uganda con  224 decessi (400 casi) nel 2000-01. 

Probabilmente è stato proprio il raffronto con questi episodi del passato che ha indotto a sottovalutare la portata della crisi attuale e a non dare ascolto agli allarmi che gli operatori delle varie ONG presenti nel territorio avevano lanciato già da diverso tempo. Va detto con chiarezza che le ragioni di questa drammatica situazione non risiedono in una maggiore aggressività del virus, in quanto le caratteristiche cliniche ed epidemiologiche  risultano essere sovrapponibili a quelle dimostrate dai suoi predecessori. Decisivi sono stati da una parte i fattori locali come la  povertà, la carenza di risorse, le credenze e barriere culturali dei paesi coinvolti e dall’ altra le reticenze e i ritardi dei  paesi occidentali nel riconoscere la gravità della situazione. Tutto questo ha fatto si che da malattia di sperduti villaggi nella foresta è diventata un’ epidemia che ha interessato importanti aree metropolitane, con quello che ha comportato in termini di aumento esponenziale del numero dei casi.



Quali timori dobbiamo avere noi abitanti dei paesi privilegiati?
 

Le notizie provenienti dall’ Africa occidentale, amplificate dalla stampa mondiale specialmente in occasione dei primi casi importati e del coinvolgimento di alcuni membri dello staff sanitario negli USA, hanno creato parecchio allarme con chiusure di frontiere o restrizioni immotivate delle libertà di movimento e scene di vera e propria isteria da parte della popolazione, che in più occasioni ha fatto appelli per l’ allontamento degli immigrati africani considerati a rischio indipendentemente dalla loro provenienza. Qualche timore è stato sollevato da esponenti del mondo scientifico, che paventavano la possibile acquisizione  del virus della capacità di trasmettersi per via aerea, ma questo appare una eventualità abbastanza remota, che per di più non ha nessun precedente nel mondo microbiologico.



Anche se mancano  o sono frammentari i dati relativi all’ andamento epidemiologico dell’ attuale epidemia, non ci sono motivi per ritenerla diversa da quelle che l’ hanno preceduta,se non per le proporzioni numeriche. La velocità di diffusione di un’ epidemia è misurata da un parametro che si chiama Rzero, che rappresenta il numero di persone contagiate da un caso indice in una popolazione totalmente suscettibile. 



                                               Più è alto e maggiore sarà il numero di persone contagiate e il ritmo di progressione della malattia nella popolazione. Malattie come il morbillo, la varicella hanno valori di Rzero molto elevati, pari a 12-15, mentre in altre malattie tale valore è più basso. Per  ebola, un lavoro recente lo ha stimato in 1.6, valore paragonabile a quello calcolato in passato (1). Il periodo di incubazione, durante il quale i soggetti NON sono contagiosi, è in media di 8-10 gg  ma può andare da un minimo di 2 ad massimo di 21 giorni, che è anche il periodo che viene richiesto per la quarantena dei contatti. Il contagio umano avviene tramite contatto diretto con animali infetti o con il sangue e altri fluidi corporei delle persone infette. Non esistono portatori sani che possono trasmettere la malattia. I livelli del virus nel sangue salgono in maniera esponenziale durante le fasi acute della malattia e un numero significativo di pazienti presenta vomito, diarrea e, nelle fasi terminali, sanguinamenti. Persone che hanno contatti non protetti con il malato o che manipolano i corpi nelle fasi subito successive alla morte sono ad alto rischio di esposizione e di contagio. Negli studi sperimentali con primati e porcellini è stata dimostrata la trasmissione mediante esposizione ad aerosol di particelle o tra animali in gabbie separate, ma questa modalità non è mai stata dimostrata in ambienti domestici e ospedalieri.   Esiste invece la possibilità di trasmissione attraverso superfici contaminate: i filovirus, a cui appartiene ebola, sono in grado di sopravvivere in liquidi o in materiale secco per diversi giorni. In Uganda una persona si è contaminata dormendo con una coperta di una persona precedentemente infetta, ma sono pochi i casi in cui si è documentata una trasmissione attraverso oggetti o altro materiale. Durante un’ epidemia verificatasi nel 1995  a Kikwit nel Congo, 28 (16%) di 173 contatti famigliari studiati di 27 casi primari si sono infettati e tutti avevano avuto un contatto diretto con i corpi e i fluidi biologici mentre nessuno di quelli che non avevano avuto tali contatti si è infettato. (2)

Nel corso della stessa epidemia sono morti 12 soggetti ( 3,8%) in cui non era riferito nessun contatto, ma si tratta di notizie ricavate  dalle interviste di famigliari e quindi non del tutto attendibili.

Una volta che un soggetto guarisce dal virus non risulta più  contagioso, anche se il virus è reperibile nel seme fino a 3 mesi, ma va detto che finora non è stata documentata questa via di trasmissione.
Tutto questo comporta che il rischio che la malattia possa propagarsi in un contesto di alto profilo sanitario come il nostro è praticamente inesistente, in quanto è sufficiente l' adozione di misure di adeguata protezione nei confronti dei soggetti malati e di quarantena  dei contatti per bloccare sul nascere la diffusione. Gli unici rischi della situazione è che l’ epidemia possa diventare endemica nei paesi africani, con una circolazione continua a bassi livelli e improvvise fiammate, con deleteri effetti sui sistemi sociali e le economie dei paesi coinvolti o che possa venire esportata nelle zone più svantaggiate di altri continenti, con conseguenze ben più gravi per gli equilibri mondiali.  Ma il rischio più concreto è che la crisi possa risolversi in tempi più o meno lunghi e che venga archiviata come ennesima emergenza “fasulla”, al pari di altre dell’ ultimo decennio, senza che si prenda coscienza del significato di eventi ripetuti di questa natura rispetto alla rottura di equilibri globali  e della possibilità che possano preludere a scenari ben più gravi e più difficili da governare. 

1)  Strategies for containing Ebola in West Africa Science DOI: 10.1126/science.1260612

2)  Ebola hemorrhagic fever, Kikwit, Democratic Republic of the Congo, 1995: risk factors for patients without a reported exposure. The Journal of Infectious Diseases. Feb 1999;179 Suppl 1:S92-97

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