domenica 14 marzo 2021

Storie di pandemie e di varianti: una lezione anche per il Covid-19

 


Sono molte le leggende che accompagnano gli avvenimenti relativi alla pandemia di Covid-19. Una di quelle più ricorrenti, rilanciata non solo dagli esperti da tastiera ma anche da seri professionisti che si cimentano con scarsi risultati in campi che non sono di loro competenza, è che i virus pandemici abbiano una sorta di orologio che ne decreti la fine entro, al massimo, uno o due anni. A sostegno di questa tesi viene portato l’esempio dell’influenza del 1918, la famigerata spagnola, che per alcuni sarebbe addirittura sparita dopo 2 anni. In realtà il virus H1N1, responsabile di quella terribile pandemia, pur perdendo la sua forza ha continuato a circolare fino al 1957, quando ha lasciato il posto al virus H2N2. Ma non ci ha lasciato del tutto, perché la sua progenie è rimasta vitale fino ai giorni nostri nelle popolazioni dei maiali ed è poi riemersa in ambito umano, grazie ad una ricombinazione con virus aviari e umani, dando origine al virus H1N1 del 2009. Un virus assai pericoloso, nonostante si sia affermato il contrario, che aveva la potenzialità di provocare drammi non inferiori all’attuale pandemia, se non fosse stato per l’ombrello che ha protetto gli anziani, venuti in contatto in gioventù con i discendenti diretti del virus del 1918. Ma il virus del 1918 non ha smesso di provocare sofferenze e lutti dopo l’ultima ondata del 1919, lo farà ancora, sia pure in modo più circoscritto, in una stagione a noi più vicina. Ma di questo parleremo più avanti.

Un virus pandemico si forma quando emerge un nuovo virus, con caratteristiche profondamente diverse rispetto a quelli circolanti, tale da renderlo non riconoscibile da parte del sistema immune di tutta o di una parte consistente della popolazione umana. Tradizionalmente questo fenomeno era considerato appannaggio dei virus influenzali, in quanto sono diffusi in molte specie del regno animale, dagli uccelli ai mammiferi. Grazie a processi di rimescolamento (riassortimento) del materiale genetico di virus di origini diverse in animali che fungono da cosiddetti mixing vessel, un tempo i cavalli, negli ultimi due secoli i maiali, danno vita a virus con un riarrangiamento sostanziale del loro patrimonio genetico (shift), in particolare di quello che codifica per le proteine di superficie. Caratteristiche peculiari del virus pandemico sono quelle di essere un virus completamente nuovo, in grado di infettare un numero elevato di persone, di colpire settori della popolazione solitamente risparmiati (age shift), come i giovani (1918) o gli adulti non anziani (2009), di poter colpire con ondate più o meno ravvicinate e ripetute anche a distanza di anni e di avere le potenzialità (che non sempre si realizzano) di provocare severi sconquassi in termini di perdite economiche, sociali e soprattutto di vite umane.

Paradigmatico in questo senso è il comportamento del virus H1N1 del 2009, che è nato grazie alla ricombinazione di virus suini nordamericani e eurasiatici, con componenti aviarie e umane, un bel collage che ha messo a dura prova il mondo, anche se le conseguenze non sono state così devastanti come si temeva. Il virus ha però determinato un coinvolgimento importante della fascia di età compresa tra i 40 ed i 60 anni, che ha rappresentato l’80% delle vittime a livello mondiale. È apparso nella primavera del 2009, sembra nel paesino di La Gloria in Messico, in un’area dove ci sono molti allevamenti di maiali, da cui si ritiene sia emerso e da cui ha ricevuto il nomignolo che lo ha reso famoso.

Il virus si è manifestato con un numero insolitamente elevato di casi, una parte dei quali severi, nel corso dell’estate, in particolare nell’emisfero sud, in nord-America ed in Inghilterra. Successivamente ha colpito con grande impeto nell’autunno, in netto anticipo rispetto ai tempi della normale influenza. Nell’agosto del 2010 l’OMS, con un laconico comunicato che lasciava trapelare l’imbarazzo per le numerose accuse
che le erano piovute addosso e che avevano spinto ad affidare ad un comitato di esperti il compito di dare un giudizio sulla gestione degli eventi, dichiara la fine della pandemia. In Italia, come in molti altri paesi del mondo, ci si è affrettati a dire che quella pagina andava archiviata e che quella subentrante sarebbe stata una stagione “normale”. I vaccini accumulati, almeno la quota che era stata consegnata, sono stati destinati a paesi del terzo mondo o sono finiti al macero.  Purtroppo ogni memoria del nostro passato, anche recente, era andata persa. Ci si è dimenticati della lezione del 1968, quando si è manifestata, a soli 11 anni dalla precedente, una nuova pandemia (detta di Hong-Kong), che ha avuto un andamento molto blando in Europa nel corso del primo anno, a differenza dell’Asia e del nord-America. L’anno successivo si è invece abbattuta con molto maggior vigore,


come testimoniano sia le cronache che i dati Istat sulla mortalità, che ha raggiunto cifre elevatissime in quell’anno, in particolare nelle fasce più giovani della popolazione, compresi i bambini.

Negli anni seguenti sono usciti importanti articoli di scuola americana che hanno ben caratterizzato gli aspetti delle pandemie influenzali e hanno messo in luce la possibilità di ondate non solo ravvicinate, ma anche distanziate di anni, come nel caso della pandemia del 1957


che ha determinato ondate fino a 5 anni di distanza dalla prima. Inoltre hanno messo in guardia dalla possibilità che i virus pandemici potessero esplicare i propri effetti fino a 10 anni dal loro esordio, con la raccomandazione di proteggere le fasce di età al di sotto dei 65 anni per tutto questo lasco di tempo. Parole che sono cadute nel vuoto. La pandemia del 2009 è tornata a bussare alle porte dei paesi europei con prepotenza anche nel 2010-11, con una stagione altrettanto o addirittura, come in Inghilterra, più severa di quella che l’aveva preceduta. Così è stato in varie parti del mondo negli anni successivi e l’Italia è stata testimone di diverse ondate di ritorno, con ricadute severe in termini di ospedalizzazioni e morti, l’ultima 10 anni dopo il primo anno pandemico, con una scia di centinaia di vittime.

E' triste constatare come tra queste si debbano annoverare molte persone che nessuno ha avuto la premura di avvisare e a cui non è stata fatta offerta attiva del vaccino perché di età inferiore a 65 anni e in assenza di patologie.

Ed ecco che il mondo è alle prese con una pandemia che ha visto emergere un nemico inaspettato, non perché sconosciuto, avendo avuto le esperienze precedenti della Sars e della Mers, ma perché nessuno aveva previsto che un virus di quella famiglia fosse in grado di mettere alle corde il mondo intero, alla pari dei grandi virus influenzali del passato, pur con importanti diversità per caratteristiche epidemiologiche, cliniche e per la popolazione target. Sicuramente un nemico in più da cui dovremo guardarci nei prossimi anni, perché non possiamo illuderci che tutto possa finire entro breve tempo. Non è così per le falangi del pensiero ottimista, che hanno sempre invitato a guardare con fiducia all'immediato futuro, all’inizio perché l’ondata sarebbe stata unica (ricordate il virus diventato “buono”?), poi perché la successiva si sarebbe attenuata da sola per motivi indipendenti dalle misure adottate, ma che avevano più a che fare con un andamento "intrinseco" del motore epidemico, che man mano perderebbe la sua energia. Adesso scommettono su una conclusione entro l’estate, galvanizzati da una campagna di vaccinazione che, iniziata timidamente, dovrebbe nei prossimi mesi procedere a gran ritmo. Il vaccino rappresenta certamente un’arma formidabile, in grado di cambiare le carte in gioco e di volgere a nostro favore la battaglia contro il coronavirus. Ma vincere una battaglia non significa vincere la guerra. Per quanto ci possano essere molti punti a favore dell’arma di cui disponiamo, soprattutto un'efficacia molto elevata nei confronti dei ceppi attualmente circolanti e una probabilità molto più alta rispetto al 2009 di raggiungere livelli di copertura elevati, abbiamo delle importanti sfide davanti a noi. Il virus ha dimostrato delle notevoli capacità di adattamento e di trasformazione, superiori rispetto a quelle che erano le attese, che parlavano di un agente piuttosto stabile.


Non che le modifiche siano state numericamente molto elevate o tali da divergere nettamente rispetto alle linee originali, ma i cambiamenti hanno interessato parti strategiche che riguardano l’affinità di legame al recettore, che si traduce in una maggiore contagiosità e forse anche severità e nella capacità di evadere la risposta immunitaria elicitata da infezioni precedenti, come sembra che sia avvenuto con le varianti in Sudafrica e Brasile. Al momento, i vaccini già in commercio hanno un’efficacia nettamente superiore rispetto ai classici vaccini influenzali e sembrano garantire una buona copertura anche nei confronti delle nuove varianti, almeno alcuni, ma non possiamo farci illusioni, perché il virus ha le potenzialità di sfuggire anche alla loro azione, rendendo necessario un loro costante aggiornamento per tenere il passo delle variazioni. Ma c’è anche da considerare il problema di larghi strati della popolazione che non potranno essere raggiunti dalla vaccinazione perché appartenenti a parti del mondo svantaggiate, dove il virus potrà circolare indisturbato, permettendogli di sviluppare nuove varianti. Anche nel mondo occidentale evoluto c’è il problema della crescente opposizione nei confronti della pratica vaccinale, con una percentuale della popolazione contraria per principio, quantificabile in ca il 20-30% e un’ampia area di persone “tiepide” su cui le campagne denigratorie possono fare presa, tanto più quanto più la minaccia del virus è destinata ad attenuarsi nel corso delle prossime stagioni, allorquando si dovessero rendere necessari dei richiami. 

Tutti questi aspetti, insieme a quello che abbiamo appreso dalle pandemie di influenza, non inducono ad essere ottimisti su una rapida conclusione della pandemia. E' più logico attendersi che avremo diversi anni in cui si alterneranno momenti di tregua sempre più lunghi con ondate di ritorno meno forti delle prime, ma che in aree più o meno circoscritte potranno comunque mettere alla prova i sistemi sanitari e che obbligheranno a ripristinare localmente le misure di mitigazione. Dopo un certo numero di anni, che è difficile quantificare, presumibilmente da 5 a 10, il virus assumerà le caratteristiche dei virus stagionali e non rappresenterà più un minaccia per la tenuta dei sistemi sanitari, ma sarà comunque un agente in più da cui dovremo guardarci e su cui bisognerà esercitare una continua sorveglianza per il rischio dell’emersione di nuove varianti più insidiose sia di origine umana che animale, a causa di sempre possibili  spill-over o  di ricombinazioni tra ceppi di diversa provenienza.

 

E veniamo al virus che è stato definito defunto, quello del 1918. Nel corso di tre ondate ravvicinate ha seminato devastazione e morti, che si sono sommate a quelle della prima guerra mondiale. Alcune ondate localizzate sono state descritte fino ad aprile 2020 e poi è andato alla “deriva” senza creare più grandi problemi, con stagioni altalenanti ( una particolarmente severa nel 1943-44 negli USA), come accade con l’influenza di oggi. Fino ad arrivare all’inverno del 1951. In tutto l'emisfero settentrionale, l'inverno 1950-1951 è stato un anno influenzale medio, con il ceppo dominante denominato ‘scandinavo', che produceva una lieve malattia nella maggior parte delle sue vittime. Ma nel dicembre del 1950, quando i futuri Beatles muovevano i primi passi nel mondo musicale, un nuovo ceppo virulento di influenza  apparve a Liverpool e nella tarda primavera si era diffuso in gran parte dell'Inghilterra, del Galles e del Canada. L'epidemia di influenza del 1951 (A/H1N1) ha causato un numero di morti insolitamente alto in Inghilterra,


in particolare, le morti settimanali a Liverpool superarono persino quelle della pandemia del 1918. Il motivo per cui questa epidemia è stata così grave in alcune aree ma non in altre rimane sconosciuto e mette in evidenza le principali lacune nella nostra comprensione dell'influenza interpandemica. A Liverpool, dove si dice abbia avuto origine l'epidemia, è stata la causa del più alto numero di morti settimanali, a parte i bombardamenti aerei, nei registri delle statistiche della città, dalla grande epidemia di colera del 1849.  Per circa 5 settimane Liverpool ha visto un incredibile picco di morti a causa di questa nuova influenza. E non ha riguardato solo Liverpool. Anche se sembra non essersi diffuso facilmente come il ceppo scandinavo dominante, è riuscito a interessare vaste aree di Inghilterra, Galles e Canada nei mesi successivi. Durante il gennaio 1951,
entro 2-3 settimane l'epidemia si diffuse  da Liverpool a tutto il resto del paese. Per il Canada, la prima segnalazione di malattia influenzale è arrivata la terza settimana di gennaio da Grand Falls, Terranova. Entro una settimana, l'epidemia aveva raggiunto le province orientali e l'influenza si è successivamente diffusa rapidamente verso ovest. Per gli Stati Uniti, dal febbraio all'aprile 1951 nel New England furono segnalati aumenti sostanziali delle malattie influenzali e dei decessi in eccesso, a un livello senza precedenti dalla grave stagione influenzale del 1943-44. Epidemie molto più lievi si sono verificate in primavera in altre parti del paese. Molto eloquente è il grafico che mostra i tassi di mortalità in Inghilterra e Galles tra il 1950 e il 1971, che incorpora l'epidemia del 1951 e le pandemie del 1957 e del 1968. Come si può vedere, l'evento "stagionale" del 1951 è stato più grave delle due pandemie 'ufficiali'.

Con l’influenza, come probabilmente con l’attuale coronavirus, meglio non pronunciare mai la parola “finita”, se non altro per scaramanzia.

 

sabato 12 settembre 2020

Covid-19 e scuola: una proposta ragionata sulla base della revisione della letteratura

 





La pandemia da virus Sars-Cov-2 rappresenta una delle più importanti sfide della storia dell’umanità, se non la più grave in assoluto, sicuramente la più insidiosa. Già il fatto di averci colto di sorpresa nonostante la nostra scienza ed i nostri avanzati apparati tecnologici, la dice lunga sulla capacità di un microrganismo di appena 100 nanometri di diametro di scalare le classifiche delle più grandi minacce che l’uomo abbia mai dovuto affrontare. Eppure, quando è emerso in Cina alla fine del 2019 tutti hanno pensato ad un evento destinato a sgonfiarsi in poco tempo, sulla scia di avvenimenti analoghi del passato, come la Sars, la “Suina”, i virus Ebola e Zika, che in realtà erano degli avvertimenti di una crescente vulnerabilità del nostro mondo che non abbiamo saputo cogliere.

Nonostante siano passati ormai diversi mesi dalla sua comparsa, rimangono ancora molte questioni irrisolte.  La prima è relativa alla sua origine, che ha lasciato spazio alle teorie più fantasiose ed inverosimili e che ancora sta impegnando gli scienziati per cercare di ricostruire il suo percorso, da quelli che sono considerati gli ospiti naturali, i pipistrelli, fino ad arrivare a noi. Un’altra sono i meccanismi dell’azione patogenetica, con quadri patologici assai diversi che vanno da forme del tutto silenti a quadri devastanti di danno d’organo, con più organi e apparati che possono essere bersaglio diretto o indiretto del virus e con strascichi spesso prolungati della malattia, quali non si erano mai riscontrati con altre malattie, perlomeno non in questa entità. Un’altra questione sono le vie di propagazione, tant’è che non siamo ancora certi su come il virus si diffonda: si è parlato inizialmente di trasmissione solo attraverso le goccioline respiratorie più grandi (droplets) con un rischio solo per esposizioni prolungate e a breve distanza, mentre adesso molti sospettano che la diffusione possa avvenire, almeno in certe circostanze, anche tramite aerosol (micronuclei) e a distanze maggiori. Incerto ancora adesso è il ruolo della trasmissione per contatto, non si sa in che misura e per quanto tempo le superfici contaminate possano rappresentare un pericolo per chi viene a contatto con esse. 

Ma tra le varie questioni, nessuna è stata oggetto di così tante dispute e così aspri dibattiti quanto quella che riguarda il ruolo dei bambini nella diffusione della malattia.  Le classiche malattie respiratorie, quelle a cui siamo abituati nel corso della stagione che va dall’autunno alla primavera inoltrata, hanno la caratteristica di correre sulle gambe dei bambini, che sono quelli che si ammalano in misura nettamente superiore rispetto alle altre fasce di età, favorendo la diffusione della malattia nell’ambito sociale. La ragione è che i bambini sono immunologicamente più suscettibili e hanno legami sociali più stretti e prolungati rispetto agli adulti, oltre ad essere meno osservanti delle regole igieniche. Lo stesso comportamento era lecito attendersi dal nuovo coronavirus, ma le prime informazioni che sono giunte dalla regione della Cina inizialmente colpita erano di tutt’altra natura. I bambini risultavano ammalarsi non solo meno gravemente ma anche con percentuali decisamente più basse rispetto a quelle a cui siamo abituati con gli altri virus respiratori. Nella casistica finale relativa a tutti i casi registrati a Wuhan, solo il 2% era costituito da bambini. Inoltre diversi studi riportavano che quasi mai erano i bambini ad ammalarsi per primi almeno in ambito famigliare e che erano solitamente gli adulti a trasmettere loro la malattia. Di questi primi lavori ho parlato nel precedente articolo sullo stesso argomento nel mio blog, a cui rimando per chi volesse approfondire.

Un limite di questi primi studi è che hanno riguardato bambini sottratti alle normali abitudini sociali dai severi limiti imposti dal lockdown, che hanno fatto venir meno i rapporti stretti che solitamente intercorrono tra coetanei nell’ambito comunitario. L’unico paese in Europa che avrebbe potuto produrre degli studi più aderenti alla realtà è la Svezia, in cui le scuole primarie dell’infanzia sono rimaste aperte. Peccato che per scelta incomprensibile del suo comitato tecnico è stata esclusa qualsiasi forma di monitoraggio della situazione epidemiologica nell’ambito scolastico. 

Pochi studi hanno indagato che cosa succede con le scuole aperte.  In  Australia un'indagine epidemiologica  ha riguardato  735 studenti e 128 membri dello staff che erano stati in stretto contatto con 18 casi iniziali (9 pediatrici).  Nessun insegnante o membro del personale ha contratto il COVID -19. Solo un bambino di una scuola elementare e un bambino di una scuola superiore potrebbero aver contratto il COVID-19 dai casi iniziali nelle loro scuole. Bisogna però considerare il periodo estivo, la circolazione virale molto bassa e l’edilizia scolastica probabilmente non confrontabile con quella italiana. Ad analoghe conclusioni (e con limitazioni molto simili) sono arrivati gli autori di uno studio tedesco, recentemente pubblicato, relativo alla riapertura delle scuole a maggio nella regione del Baden-Wurttemberg.

Sul fatto che le scuole debbano riaprire sono tutti d’accordo, dall’OMS alle autorità sanitarie nazionali. Hanno ben chiari i danni che in caso contrario un’intera generazione potrebbe subire: danni allo sviluppo e alla preparazione, alle competenze sociali, al benessere psicologico e, non ultima, alla salute fisica di bambini e ragazzi. A questo proposito i CDC di Atlanta hanno redatto un documento in cui viene fortemente caldeggiata la riapertura delle scuole. I bambini sono a bassissimo rischio di complicanze, anche se rimane qualche timore per il possibile sviluppo tardivo della temibile MIS-C. Anche l’ECDC si è pronunciata a favore della riapertura.

 

Rimane però l’incertezza sul ruolo dei bambini come possibile serbatoio e potenziali propagatori del virus. Qualche lume è arrivato grazie a studi sia di modellistica che di analisi virologica usciti negli ultimi mesi.

 

Un primo studio che ha cercato di analizzare a fondo la questione mediante l’utilizzo di modelli matematici è stato pubblicato sulla rivista Science per opera di autori di grande valore. Nello studio viene ricostruita la complessa rete delle relazioni individuali nelle città di Wuhan e Shanghai, prima e dopo il blocco. Dall'analisi dei cluster famigliari è emerso che i bambini di 0-14 anni hanno una minore tendenza rispetto ai ragazzi più grandi e agli adulti ad ammalarsi (1/3 di probabilità a parità di contatti) ma che possono comunque risultare determinanti nella propagazione dell’epidemia in ragione del maggior numero di contatti interpersonali. La chiusura delle scuole, secondo gli autori, sarebbe in grado di ridurre del 40-60% il picco dell'epidemia e di ritardarlo nel tempo. Da questo studio emerge un’importante distinzione tra bambini più piccoli, che frequentano le scuole dell’infanzia e primaria e quelli più grandicelli, che vanno alle superiori. Una conferma che questi ultimi possano essere maggiormente a rischio di contagio (e trasmettano facilmente il virus) viene da uno studio sierologico retrospettivo di Fontanet, che ha analizzato quanto è accaduto in una scuola superiore del nord della Francia, dove il coronavirus si era diffuso silenziosamente a partire dalla terza settimana di gennaio: l'attack rate secondario risultava essere del 38,3% negli scolari, negli insegnanti del 43,4% e nel personale non didattico del 59,3%. Nelle famiglie invece l'attack rate secondario era più basso, 11,4% nei genitori e 10,2% nei fratelli.  Lo stesso Fontanet ha successivamente eseguito un’indagine mirata su 510 studenti di sei scuole primarie. Ci sono stati tre probabili casi di infezione da SARS-CoV-2 in tre diverse scuole prima della chiusura, che non hanno dato luogo a casi secondari tra altri studenti o personale docente. Molto probabilmente i bambini si erano infettati a casa. Un dato interessante in controtendenza è quello che risulta da uno studio italiano, da cui emerge che il 55% dei casi pediatrici (età media 3,3 anni) trovati positivi agli inizi dell’epidemia non sembra essersi infettato in ambito famigliare. 


Appare evidente come, alla luce di questi dati, ci siano ancora delle incertezze sul ruolo dei bambini anche se sembra delinearsi un aspetto importante, cioè il diverso comportamento in base all’età di appartenenza. Al di sopra dei 13-14 il rischio di ammalarsi e di contagiare altri soggetti sembra essere sovrapponibile a quello degli adulti. I bambini al di sotto dei 10 anni, al contrario potrebbero avere una minore propensione ad ammalarsi e, nel caso che si ammalino, a trasmettere il virus. Ma è proprio così?  Le cronache di questi ultimi mesi ci riferiscono di focolai epidemici importanti non solo nelle scuole frequentate dai ragazzi più grandi ma anche in centri estivi frequentati da ragazzini di età più basse, come quello registrato nella Georgia americana. 

Un tema controverso fin dall’inizio è stato stabilire non solo le modalità di contagio (droplets, aerosol, contatto) ma anche il potere contagiante dei singoli. Le domande erano numerose: quanto si è contagiosi, per quanto tempo, solo dopo la comparsa dei sintomi o anche prima, le differenze tra malati severi, lievi o addirittura asintomatici. 

In questi ultimi mesi è stata fatta luce su molti di questi aspetti. Innanzitutto si è scoperto che il contagio non avviene in maniera uniforme, come ad esempio con l’influenza, ma in maniera asimmetrica con singoli eventi chiamati di superdiffusione, anche se  non è ancora chiaro se siano legati a particolari situazioni, tipicamente locali chiusi poco ventilati  o anche a soggetti con maggiore tendenza a disseminare il virus nell’ambiente. Tali eventi sono all’origine dei clusters epidemici, che si ritiene siano responsabili della maggior parte dei contagi. Un fenomeno simile, che viene misurato con l’indice di dispersione K, accadeva anche con la vecchia SARS  e con la MERS. Con il Covid non è stato ben quantificato ma, si stima che tra il 10 ed il 40% di questi eventi sia responsabile dell’80% dei contagi.  Secondo un recente studio in Georgia(USA) il fenomeno appare più limitato ma comunque significativo, con il 2% dei casi che provocherebbero il 20% dei contagi

Un altro aspetto che è stato ormai ben definito riguarda i periodi in cui si è contagiosi. Sembra accertato che il periodo di contagiosità inizi prima dell’inizio dei sintomi. Uno studio di modellazione ha stimato che fino al 44% (25-69%) della diffusione avvenga nel periodo presintomatico, un altro che la trasmissione da parte di asintomatici e presintomatici sia responsabile di più del 50% del tasso di attacco complessivo. A sostegno di questa tesi è arrivata una ricerca del MIT e di Harvard che ha valutato la carica virale di 32480 residenti e membri dello staff delle case di cura del Massachusetts e ha rilevato  che la carica virale dei soggetti asintomatici è sovrapponibile a quella dei sintomatici. Ormai c'è un accordo quasi unanime che il periodo di contagiosità (virus vitale nell’orofaringe) non superi gli 8-9 giorni dall'esordio dei sintomi in quasi il 95% dei casi lievi, anche se il tampone rileva tracce del virus per periodi più prolungati e questo potrebbe consentire di rivedere la regola del doppio tampone, almeno nei casi lievi.

La ricerca ha permesso anche di chiarire l’aspetto della contagiosità dei bambini e di ribaltare l’idea iniziale che i bambini non rappresentassero un rischio per i loro contatti.

Già a maggio il virologo tedesco Drosten e i suoi collaboratori avevano dimostrato che la carica virale dei bambini, anche i più piccoli, non differiva sostanzialmente da quella degli adulti, mentre uno studio recente ha rilevato nei bambini sintomatici al di sotto dei 5 anni una  carica virale addirittura superiore a quella degli adulti. I bambini al di sopra dei 10 anni sono invece quelli a maggior rischio di trasmettere la malattia secondo uno studio coreano , mentre risulta nettamente più basso, ma non trascurabile, per quelli di età inferiore.  

 

Del resto dal punto di vista anatomico e della fisiologia respiratoria i bambini sono adulti in miniatura, per cui non c’è motivo di credere che un bambino positivo non sia in grado di diffondere il virus, anche se il volume d’aria espirato è inferiore a quello dell’adulto. Rimane invece plausibile che il bambino più piccolo possa avere una minore probabilità di ammalarsi, forse per una minore presenza di recettori ACE2 a livello delle alte vie respiratorie, così da ostacolare l’aggancio del virus.  Quello che appare certo è che i bambini hanno quadri più sfumati che rendono difficile la diagnosi, spesso (22%) sono del tutto asintomatici, così da avere maggiori probabilità di passare inosservati con o senza sintomi e continuare con le loro attività abituali, contribuendo alla circolazione virale all'interno della loro comunità: il 93% dei bambini infetti sarebbe stato perso utilizzando una strategia incentrata sul test dei soli pazienti sintomatici.

 

A fare maggiore chiarezza sono arrivati due studi pubblicati di recente. Il primo ad opera degli stessi autori dell’articolo di Science citato all'inizio, in una pubblicazione al momento in preprint: sulla base di 1178 individui e 15648 loro contatti hanno stimato che la percentuale di trasmissione presintomatica è pari al 62,5% e che la probabilità di trasmettere il virus non differisce tra soggetti adulti (15-64) e bambini (0-14) anche se la suscettibilità dei secondi ad ammalarsi risulta più bassa. È questo un dato di assoluto rilievo perché conferma che i bambini non sono diversi dagli adulti, in linea con quanto avevano già messo in luce gli studi precedenti, ma hanno una minore propensione ad ammalarsi, tanto più bassa quanto più sono piccoli. Un altro dato interessante che emerge dallo studio è che nella catena di trasmissione, quelli che sono più in alto (in ordine di contagio) hanno una maggiore infettività rispetto a chi sta più in basso (i casi secondari rispetto ai casi indice, i terziari rispetto ai secondari…)

Il secondo studio, pubblicato su Journal of Pediatrics  ci fa fare un passo ulteriore: i bambini infettati sono potenzialmente in grado di trasmettere il virus anche in presenza di forme lievi o addirittura asintomatiche. La carica virale in gola risulta essere più alta dell’adulto con forme severe e questo avviene indipendentemente dall’età.

 

Un altro aspetto di considerevole interesse che è emerso di recente è che, a differenza di quanto accade con le epidemie influenzali, le scuole non sembrano avere un ruolo trainante nello sviluppo dell’epidemia, ma vanno piuttosto “a rimorchio” della situazione territoriale. In un contesto di bassa circolazione virale e di attento monitoraggio del territorio, le scuole risultano essere scarsamente coinvolte. A Rhode Island nei mesi di giugno e luglio sono stati riaperti tutti i plessi scolastici, con 18945 bambini in tutto, arrivando a contare appena 52 casi di bambini e adulti positivi. Di questi, 39 sono stati registrati nelle ultime due settimane, in concomitanza con una ripresa della circolazione virale.  Una conferma viene da un altro studio che dimostra che il rischio di infezione in età pediatrica non dipende tanto dalle caratteristiche, dal comportamento o dalla socialità dei bambini, quanto dalla diffusione nella popolazione generale.

I punti fermi che si possono delineare da questa carrellata di studi:

i bambini di età scolare hanno un ruolo secondario nella propagazione dell’epidemia in ambito comunitario rispetto agli adulti, ma se l’epidemia raggiunge livelli elevati contribuiscono al suo allargamento

al di sotto dei 10 anni si ammalano di meno rispetto ai bambini più grandi e agli adulti, ma quando si ammalano hanno una contagiosità che non è inferiore a quella degli adulti (con un numero di contatti superiore)

al di sopra dei 13-14 anni la probabilità di ammalarsi e di trasmettere il virus è sovrapponibile agli adulti

la trasmissione del virus inizia già prima dell’esordio della malattia e anche in assenza di segni clinici, che comunque sono solitamente molto sfumati e di difficile riconoscimento

non è escluso che anche tra i bambini ci possano essere differenze nella capacità di trasmettere il virus con possibili fenomeni di superdiffusione

 

 PROPOSTA DI INTERVENTO

 

Vediamo quali possono essere le strategie che si potrebbero adottare per rendere più sicuro il ritorno a scuola dei bambini e dei ragazzi. Se per gli studenti universitari è sicuramente preferibile (e anche più accettabile) continuare con la DAD, il discorso per i ragazzi delle scuole primarie e secondarie è certamente più complesso. Dando per assodato che la scuola in presenza rappresenta la forma migliore di istruzione dal punto di vista pedagogico e sociale e che va considerata come una scelta prioritaria da adottare anche a costo di correre qualche rischio, ritengo tuttavia indispensabile che questo avvenga in modo ragionato e senza gli estremismi ideologici di chi dice che vanno aperte a prescindere, senza pensare alle possibili conseguenze. In un contesto ancora di grandi incertezze e con rischi potenziali tuttora elevati, non ci sarebbe nulla di peggio di un salto nel buio che ci obbligherebbe poi a ritornare precipitosamente (e rovinosamente) sui nostri passi.  Diciamo subito che il documento redatto dall’ISS, insieme alle regioni e ad altre figure tecniche, appare come un compromesso  che cerca di salvare le diverse istanze delle parti in causa, ma senza garanzie di sostenibilità sulla media e lunga distanza. Con queste linee guida si è cercato di dare indicazioni pratiche sulla gestione dei singoli casi, con una chiara definizione dei diversi ruoli, ma prevedendo troppi paletti ed ostacoli che rischiano di rendere accidentato il percorso anche in una situazione di bassa presenza del coronavirus e lasciando in sospeso quelle che sono le misure da adottare nel caso di una recrudescenza epidemica di cui ci sono già le prime avvisaglie. In effetti manca qualsiasi tentativo di contestualizzare i provvedimenti sulla base dell’effettiva situazione epidemiologica in cui le scuole si trovano ad operare, che potrà essere diversa da zona a zona e, nell’ambito della stessa zona, in periodi diversi.  Una pianificazione accurata risulta a mio avviso cruciale per il bene non solo delle scuole, ma anche dell’intera società. Nessuno sa che cosa realmente ci aspetta, ma ritengo sia doveroso cercare di prepararsi ad affrontare nel modo migliore i possibili scenari dei prossimi mesi.

La mia proposta è di considerare tre possibili scenari con misure diverse da adottare a seconda di quello che si verifica su base territoriale e temporale: uno scenario a basso, uno a medio e uno ad alto rischio. La differenza si deve basare su indicatori della situazione epidemiologica a livello del territorio (ad esempio la provincia). Ce ne sono diversi, come la crescita nel numero dei casi (Rt) o la sofferenza a livello di strutture ospedaliere, che hanno però il limite di essere tardivi. Quello che ritengo di più semplice utilizzo e con miglior corrispondenza  è la percentuale di tamponi positivi sul totale di soggetti testati, che viene indicato anche dall’OMS come uno dei più affidabili per capire se la situazione epidemica è sotto controllo o sta sfuggendo di mano. Il superamento della soglia del 5% è da considerare indicativo di un cattivo controllo territoriale e ci dice che siamo nello scenario più grave. Il basso rischio potrebbe essere una situazione in cui la percentuale è al di sotto del 2%, mentre le situazioni intermedie (2-5%) andrebbero a caratterizzare lo scenario a rischio medio. 

 

Rischio Alto

In una situazione di alto rischio epidemico (tanto più se cominciano ad esserci segni di sofferenza ospedaliera) le scuole di ogni ordine e grado andrebbero chiuse fino a che non si ritorni a numeri più rassicuranti o perlomeno non si abbia una stabilizzazione. E' troppo alto il rischio di lasciare le scuole aperte, perché c’è la concreta possibilità che possano fungere da amplificatori dell’epidemia, anche se i rischi per i bambini e ragazzi rimarrebbero bassi. La tutela della salute collettiva dovrebbe prevalere sul diritto ad una scuola in presenza. Si potrebbero eventualmente prevedere chiusure diversificate come tempi, partendo dalle scuole superiori per arrivare, nel caso di un peggioramento, alla chiusura di scuole primarie e dell’infanzia. 

 

Rischio Medio

 

Più problematico è lo scenario con rischio medio. In questo caso comincia ad esserci qualche affanno da parte dei servizi preposti, vuoi per l’aumento del numero dei casi, vuoi per un’insufficiente disponibilità di risorse umane e materiali. I focolai diventano più numerosi, si riesce ancora a controllarli ma non del tutto e per ogni focolaio risolto ce ne sono due o più che si aprono mettendo sempre più in difficoltà il personale dei dipartimenti di prevenzione. Questo scenario potrebbe evolvere più o meno rapidamente verso quello più severo ed è assai improbabile che le scuole non vengano coinvolte direttamente. Come successo negli Stati Uniti o in Israele, le scuole possono diventare punti critici della crescita epidemica, per cui la  gestione di situazioni problematiche deve essere il più possibile tempestiva. Le norme indicate  nelle linee guida ministeriali non sono a mio giudizio idonee a gestire il rischio più elevato che queste circostanze comportano. Gli studi ci dicono che i bambini si ammalano, anche se in misura minore e meno grave rispetto agli adulti e sono in grado di diffondere alla pari di questi. Il problema è che sono contagiosi anche in presenza di sintomi molto sfumati e, soprattutto, cominciano a diffondere il virus già due-tre giorni prima della comparsa dei sintomi e anche se rimangono del tutto asintomatici. Non è possibile controllare tali situazioni isolando e facendo il tampone ai soli soggetti sintomatici, con tempi tecnici di attesa che possono allungarsi man mano che i servizi territoriali vanno in sofferenza. Nel frattempo i focolai possono esplodere (specialmente nel caso di superdiffusione) con numerosi potenziali “untori” che  portano il virus a casa o in altri ambienti, contribuendo all’aggravamento della situazione epidemiologica.  La mia proposta in questo caso è di agire proattivamente, non aspettando l’esito dei tamponi, ma basandoci sul numero dei soggetti con segni di infezione per classe e/o per l'ntera scuola. Ci sono degli studi sulla prevenzione di situazioni analoghe con i virus influenzali, che danno delle possibili direttive da seguire. Ad esempio questo sui criteri e la durata dell’eventuale chiusura delle scuole,  questo  sul momento migliore per chiudere e questo  che fornisce un semplice algoritmo, eventualmente adattabile, per stabilire il giusto momento in cui chiudere una classe o l’intera scuola. Il principio basilare è che non si dovrebbe aspettare l’esito dei tamponi, ma che al superamento di determinate soglie di casi, si decide per i blocchi che poi potranno rientrare al momento della accertata negatività. È l’unico sistema per evitare che la situazione precipiti e, al tempo stesso, evitare chiusure ingiustificate se i casi sono isolati, che andrebbero seguiti secondo le linee guida emanate.

Rischio Basso

Nello scenario di basso rischio, con percentuale di tamponi positivi al di sotto del 2%, abbiamo la presenza di focolai che,  grazie all’attività di tracciamento, si riesce a tenere sotto controllo e una situazione negli ospedali tranquilla o comunque ben gestibile. È quello che abbiamo avuto per tutta l’estate, grazie principalmente al lockdown ma probabilmente anche alla stagione più favorevole. La mia proposta in queste condizioni è in controtendenza e probabilmente indigesta per molti, perché ritengo che non si debba fare nulla di più dell’osservanza delle norme igieniche-ambientali e del mantenimento di un certo grado di vigilanza, ma senza la necessità di intervenire invasivamente con test per ogni caso di febbre o di sintomi di tipo influenzale o intestinale. Da quanto abbiamo appreso dagli studi, laddove le scuole erano aperte e la presenza del virus su livelli contenuti, il rischio dei bambini di ammalarsi e di diffondere il virus è da ritenere estremamente basso e il gioco (le pesanti limitazioni imposte da isolamenti, necessità di eseguire test per ogni starnuto, rischio di chiusure dolorose di classi o intere scuole), non vale la candela (ricadute apprezzabili in termini di allargamento significativo dell’epidemia).

I bambini devono essere liberi di frequentare senza particolari vincoli, tollerando sintomi minori come il raffreddore che potrebbe perfino essere uno scudo protettivo nei confronti di virus più temibili come il coronavirus, limitandoci all’allontanamento o all’invito a stare a casa dei bambini con sintomi più severi, come si è sempre fatto in passato.In questi casi non deve essere richiesto il certificato medico per il rientro, al massimo un'autocertificazione dei genitori. Nell’attesa che vengano autorizzati e resi disponibili i test rapidi salivari che potrebbero essere impiegati su larga scala a scopo preventivo e diagnostico, si potrebbero fare test a campione sui casi segnalati, di più se ci fosse qualche focolaio sospetto. I casi più impegnativi ovviamente andrebbero sempre indagati. Ma si può consentire alla scuola di condurre una vita quasi normale, destinando le risorse limitate di cui disponiamo al monitoraggio del territorio e alla prevenzione dei focolai ben più pericolosi.

 Ovviamente se si passa da uno scenario all’altro, con degli opportuni tempi di attesa affinché il trend si stabilizzi, si cambiano le modalità di intervento secondo lo schema che ho indicato.


Si tratta di una proposta che vuole essere un approccio ragionato e basato sulle evidenze disponibili per la gestione delle diverse problematiche legate alla riapertura delle scuole nei prossimi mesi, nel tentativo di rendere meno accidentato il percorso e di salvaguardare al tempo stesso la salute pubblica. Ovviamente è una proposta aperta alla discussione e al contributo di tutti quelli che si stanno impegnando per trovare delle soluzioni ai tanti interrogativi che vengono sollevati da tutte le parti.

Il messaggio finale della mia lunga ma spero proficua disquisizione è che dobbiamo adoperarci tutti affinché si permanga nella situazione di basso rischio, così da evitare situazioni di stress per la società, per le famiglie e per tutti i nostri ragazzi, nell’attesa che diventino disponibili su larga scala trattamenti preventivi (vaccini) e terapeutici (anticorpi monoclonali?) che possano rivelarsi degli autentici “game changers”.