domenica 28 dicembre 2014

Influenza e mortalità: la lezione (ignorata) del virus di Hong-Kong






L’influenza è una malattia le cui origini risalgono a tempi certamente lontani se già Ippocrate, 2400 anni fa, ne dava una pur sommaria descrizione. Nell’antichità ci si riferiva ad essa come ad una malattia legata all’influenza degli astri ( obscuri coeli influenza). L’influenza si è sempre manifestata con andamento stagionale, con anni caratterizzati da un andamento più o meno mite a cui si intercalano anni con andamento nettamente più severo, in cui  varianti più aggressive tendono a diffondere rapidamente da una parte all’altra del globo. Quest’ultime sono definite pandemie. La prima di cui si hanno notizie certe risale al 1510.  Da notare che fino al secolo scorso queste erano spesso precedute da epidemie similari nei cavalli, che probabilmente rappresentavano un importante serbatoio del virus, data l’ampia diffusione di questa specie, ruolo ricoperto oggi dai maiali che rappresentano spesso l’anello di collegamento tra gli uccelli ( che sono il serbatoio principale) e l’uomo. Dai tempi in cui si è cominciata a monitorare la mortalità nella popolazione, ci si è resi conto che nelle stagioni in cui maggiore era la circolazione della patologia influenzale la mortalità tendeva ad essere più elevata rispetto ai periodi in cui questo non avveniva. Già nel 1847 William Farr, in Inghilterra, ha elaborato un sistema di calcolo dell’ impatto dell’ influenza sulla  mortalità, che otteneva semplicemente sottraendo i morti registrati nelle stagioni relativamente prive di circolazione a quelle rilevate nei periodi epidemici. All’epoca non si conosceva neppure quale fosse l’agente responsabile della malattia, non esistendo neppure il concetto di germi, che saranno identificati solo nei decenni successivi. Il virus dell’influenza verrà individuato prima nei maiali (1931) e poi negli esseri umani (1933).

Se analizziamo l’andamento della mortalità generale nel corso dell’anno, così come viene rappresentata dai grafici, notiamo che ha l’aspetto di onde con dei picchi che corrispondono ai mesi invernali e degli avallamenti ai mesi estivi. Nei mesi invernali la mortalità aumenta, soprattutto a carico delle fasce più anziane della popolazione, per una serie di motivi:



- Le basse temperature. Vi sono studi che dimostrano che il freddo è in grado di aumentare la pressione arteriosa e l’emoconcentrazione del sangue, con maggior rischio di fenomeni trombotici. Inoltre abbassa le nostre difese immunitarie.

- L’ inquinamento. E’ stata documentata una relazione lineare tra i livelli di pm10 e la mortalità.

- L’ aumentata circolazione degli agenti infettivi, tra i quali spicca l’influenza.



A quest’ultima, sulla scorta di ormai numerosi studi epidemiogici, è stato riconosciuto un ruolo importante nel determinare l'eccesso di mortalità della stagione invernale, soprattutto nelle stagioni in cui circolano ceppi originati da  drift e in maniera più marcata con il sottotipo H3N2 rispetto all’ H1N1stagionale.

Se analizziamo le tabelle di mortalità, raramente l’influenza compare come causa di morte. Se esaminiamo ad esempio i dati Istat relativi alla popolazione italiana nel 2011, con la diagnosi codificata di influenza che corrisponde ai codici J10 e J11 ( la seconda voce si riferisce ai ceppi di influenza non tipizzati, non ad altri virus come ho trovato scritto nei siti della pseudoscienza) vi sono appena 400 casi. Il fatto è che il virus si nasconde dietro molti decessi per cause respiratorie, in cui non viene identificato o perché non viene ricercato o perché si attribuisce il decesso a polmoniti generiche o ad altri agenti infettivi a cui l’ influenza fa da apripista. L’ influenza si annida anche dietro molti decessi di altra natura, in particolare le malattie cardiovascolari, in cui il virus direttamente o indirettamente fa precipitare situazioni già precarie per la presenza di precedenti morbilità.  Sono stati elaborati metodi statistici (analisi delle serie temporali o di regressione) che, confrontando le morti attese con quelle osservate e apportando opportune correzioni in base all’andamento della stagione, calcolano quante morti possano essere attribuite annualmente all’influenza. E’ così che si arriva ad una cifra media di 36000 morti negli USA e 8000 in Italia.

Espresso in questo modo il concetto può risultare abbastanza nebuloso e di non immediata comprensione. Ma c’è un esempio della nostra storia recente che può servire a rendere più chiari questi concetti.

Tra le pandemie del 20° secolo quella del 1968 è considerata la più blanda e caratterizzata da un impatto certamente più lieve rispetto alle due che l’hanno preceduta. Lasciando stare la pandemia del 1918, che è stata forse un’ unicum nella storia di questa malattia per le sue devastanti conseguenze, la pandemia del 1968 è stata molto più blanda di quella del 1957 (H2N2), che aveva fatto registrare quasi 4 milioni di decessi, forse perché il virus si presentava solo parzialmente modificato, mantenendo lo stesso tipo di antigene neuraminidasi (N2) e cambiando solo la componente emagglutinina (H3). Fatto sta che  i contemporanei non si sono quasi accorti del suo impatto e il bilancio finale è risultato piuttosto contenuto, paragonabile a quello dell’ ultima pandemia del 2009 e superiore a questa solo in quanto una parte più rilevante dei decessi ha riguardato la fascia più debole degli anziani, che nell’ultima pandemia sono stati in larga parte risparmiati.
 In Italia, come è avvenuto anche in Europa, la stagione maggiormente colpita non è stata quella in cui ha fatto la prima comparsa il virus ma la successiva, da dicembre del 1969 alla primavera del 1970. All’epoca ero solo bambino e non ho ovviamente ricordi relativi a quel periodo, ma ho interpellato diverse persone tra cui mio fratello, all’epoca studente della facoltà di medicina, chiedendo loro se era rimasta nella memoria il ricordo di un anno particolarmente severo. La risposta è stata negativa o, come testimoniato da mio fratello, ha rievocato un anno con tantissima influenza e tante assenze nelle aule e nei luoghi di lavoro, ma nessuna altra  conseguenza di rilievo. Nella memoria collettiva della nostra gente non è rimasto il ricordo di una stagione drammatica. Ebbene nel 2007, a distanza di quasi 40 anni da quegli avvenimenti e appena 2 anni prima della pandemia del 2009, è stato pubblicato uno studio (1) ad opera di esperti della CDC di Atlanta e membri dell’Istituto Superiore di Sanità italiano sulla mortalità negli anni che vanno dal 1970 in poi, in cui si è evidenziato un quadro inaspettato.




Nella curve di mortalità  si nota un anno in cui si è registrato  un picco che ha oltrepassato nettamente tutti gli altri, che corrisponde proprio alla stagione dominata dal virus pandemico. L’ eccesso di morti rispetto alla curva basale (costruita in base all’ andamento dei periodi in cui non circola l’ influenza) è stato pari a 20000 per cause respiratorie e ben 57000 per tutte le cause. Una tipica stagione influenzale dura 8-10 settimane, tradotti in cifre significa 7-800 morti in più OGNI GIORNO. L’ aumento ha riguardato non solo la fascia di popolazione degli anziani ma anche quella degli adulti e dei bambini. La proporzione dei decessi nelle persone al di sotto dei 65 anni è stata 3 volte più alta rispetto a tutte le stagioni di normale epidemia. Rispetto alla stagione che ha fatto registrare un numero di morti subito inferiore (1974-75), la mortalità nella fascia 0-7 anni è stata 7 volte più elevata, 4 volte nelle fasce 15-44 e 45-64 e “solo” 2 volte nella fascia >65. Ci possono essere altre spiegazioni di un numero così elevato di decessi? Non è stato un inverno particolarmente rigido o contrassegnato da livelli di inquinamento che possano giustificare tale differenza. Non risulta che abbiano circolato altri agenti infettivi e comunque  non ve ne sono che possano essere associati ad un simile andamento. L’ unica “novità” della stagione è stata la circolazione di un virus influenzale con caratteristiche mutate, anche se non in maniera sostanziale, rispetto al precedente.  Questo quadro si riferisce non ad un periodo di arretratezza economica, anche se la differenza Nord-Sud era probabilmente più marcata rispetto ai nostri tempi. Parliamo dell'Italia degli anni subito successivi al boom economico, con gli iniziali fermenti post-sessantottini che avrebbero poi aperto la strada alla stagione del terrorismo, ma con uno stato di benessere e di sviluppo già abbastanza consolidato. Non esisteva ancora internet, ma la televisione e la carta stampata erano mezzi che portavano le informazioni in tutte le case. Eppure si è manifestato un evento di tale portata senza che ci sia stata consapevolezza di quello che accadeva  e senza che sia rimasta traccia nella memoria del nostro popolo. E’ come se tutte queste morti fossero state invisibili. Questo è un esempio, che possiamo definire limite, di quello che può fare il virus influenzale, che ogni anno miete migliaia di vittime senza che le persone che vivono intorno ad esse si rendano conto di quella che è la causa sottostante: morti per polmonite, per ictus, per infarto, per complicanze del diabete e per molte altre cause nelle quali l’influenza non è neppure sospettata pur avendo avuto un ruolo significativo.

1)  Rizzo C., Bella A., Viboud C., Simonsen L., Miller M. A., Rota M. C., Salmaso S., Ciofi degli Atti M. L. "Trends for Influenza-related Deaths during Pandemic and Epidemic Season, Italy, 1969-2001". Emerging InfectiousDiseases Vol 13, N. 5, May 2007



             




domenica 21 dicembre 2014

La prima stagione del Mers-Coronavirus e i rischi di un' informazione imbavagliata






Era la metà di giugno del 2012 quando Ali Mohamed Zaki, virologo egiziano che lavorava presso l’ ospedale Dr Soliman Fakeeh a Jeddah, in Arabia Saudita, riceve una telefonata da un medico preoccupato perché un uomo entrato in ospedale aveva i sintomi di una grave polmonite virale complicata da insufficienza renale acuta. Il dott Zaki, dopo aver prelevato un campione dal paziente, esegue i test tradizionali, senza però riuscire ad identificare l’ agente causale. Decide allora di inviare il campione al centro medico Erasmus a Rotterdam, dove lavora l’ amico Fouchier. Nel frattempo compie un altro test e, questa volta, riesce ad identificare il virus come appartenente alla famiglia dei coronavirus, una categoria di virus con componenti che vanno dagli agenti causali di comuni raffreddori alla temibile SARS, che aveva spaventato il mondo nel 2003. A Rotterdam intanto arrivano allo stesso risultato e scoprono che si tratta di un beta-coronavirus  mai identificato in precedenza. Il 15 settembre del 2012, Zaki scrive una nota  a ProMED-mail, un sito che ha il compito di raccogliere le notizie di malattie emergenti. La segnalazione gli costa cara. Una settimana dopo è costretto a ritornare in Egitto, il suo contratto con l’ ospedale rescisso, dietro pressione delle autorità saudite che non avevano gradito la divulgazione della notizia. “Era mio dovere farla, si tratta di un virus molto pericoloso” spiegherà poi in un intervista.

Nel frattempo al St Thomas di Londra viene ricoverato un uomo di 49 anni originario del Qatar, trasportato fin lì in ambulanza in condizioni molto gravi. La natura dell’ infezione risulta misteriosa. Durante la notte, mentre si è alla ricerca affannosa dell’ origine dell’ infezione, un’ illuminazione desta le menti di due ricercatori dell’ HPA ( Health Protection Agency) che hanno la fortuna di imbattersi proprio nel comunicato di Zaki, pubblicato quello stesso giorno. Il giorno successivo identificano un coronavirus diverso da tutti quelli conosciuti che potrebbe corrisponde a quello isolato in Arabia. Il confronto delle sequenze genetiche con quelle del virus analizzato da Fouchier rileva una corrispondenza del 99,5%. L’ HPA avvisa  subito l’ OMS, che subito dopo emette un allerta globale. Questo episodio è significativo perché ci fa comprendere  l’ importanza di non tenere nascosti eventi potenzialmente pericolosi per la salute pubblica. Purtroppo le lezioni della SARS e del tentativo delle autorità cinesi di minimizzare la portata di quell’ evento non sempre sono servite da monito, come vedremo anche nel prosieguo di questa vicenda.

Ma facciamo un passo indietro. Il 20 aprile dello stesso anno alcuni organi di stampa della Giordania riportano la notizia di 9 persone gravemente ammalate, tra cui 7 infermiere e un dottore, tutti impiegati presso l’ ospedale pubblico di Zarqa, una città situata a nord-est della capitale Amman. Un’ infermiera risulta essere già deceduta. Alla fine del focolaio i soggetti colpiti sono stati in tutto 11 ( 8 operatori sanitari e 3 famigliari) con due decessi. La causa all' epoca era risultata misteriosa. A fine Novembre l’ OMS emette un comunicato in cui si legge che grazie ad indagini eseguite retrospettivamente, dopo l’ isolamento del virus in Arabia Saudita, almeno due  casi giordani risultano positivi per lo stesso virus.

A quella data i casi confermati sono 9 , di cui 5 sauditi ( 3 morti), due del Qatar e due, per l’  appunto, giordani.

Fu subito evidente che la malattia non aveva la tendenza di essere così contagiosa come la Sars, altrimenti l’ annuale pellegrinaggio alla Mecca, che in quell’ anno tenne con il fiato sospeso più di un osservatore, avrebbe portato alla deflagrazione dell’ epidemia sia in ambito locale sia nei paesi di provenienza dei pellegrini.  La malattia, come risultò evidente dai primi casi, si manifestava in maniera prevalentemente sporadica ma, talvolta, anche in più soggetti in ambito strettamente famigliare (cluster) o, come nel caso dell’ epidemia giordana, in operatori sanitari esposti senza le dovute precauzioni. Ma la domanda che assillava molti era quale fosse l’ origine del virus, che verrà successivamente battezzato con il nome di Mers-Coronavirus. Un’ indicazione venne inizialmente dal fatto che la sequenza genetica  del virus presentava analogie con un virus presente nei pipistrelli. Anche la Sars aveva avuto origine nei pipistrelli, anche se veniva diffusa dagli zibetti.

Intanto si continuano a segnalare nuovi casi, sia in Arabia saudita che in altri paesi. A febbraio del 2013 si ammala un cittadino britannico di origini mediorientali che si era fermato alla Mecca per pregare per il figlio ammalato di cancro. Quest’ ultimo viene infettato dal padre di ritorno a Manchester e morì pochi giorni dopo. Anche una sorella del primo si ammalò in modo lieve. In  Germania, dopo un primo caso di un paziente ricoverato proveniente dal Qatar, se ne registra un secondo a Marzo. La maggior parte dei casi si era manifestata in Arabia Saudita, ma le uniche, sparute notizie sono quelle diffuse dalle autorità sanitarie saudite che si limitano a laconici comunicati sul luogo, età, presenza o meno  di fattori di rischio, inizialmente solo in lingua araba. 



Agli inizi di Maggio il solito scarno comunicato informa di ben 7 casi ( facendo diventare 24 quelli totali dall’ inizio dell’ epidemia), di cui 5 fatali, registrati in  precedenza ( non si sa quando) presso la città di Al Asha, ma senza fornire dettagli essenziali per chiarire il contesto epidemiologico e i rischi connessi con una così brusca impennata nel numero di casi. La comunità internazionale si interroga sulla reale portata di questo avvenimento, che potrebbe preludere ad una accelerazione nella progressione dell’ epidemia. Diversi commentatori lamentano la scarsità di informazioni ricevute e la mancanza di tempestività negli annunci, contrariamente alle regole imposte dalle International Health Regulations. KeiJi Fukuda ( assistente del direttore generale dell’ OMS) emette un comunicato soft nel linguaggio ma duro nel contenuto sul comportamento reticente delle autorità saudite. A molti sembrò di tornare ai tempi della Sars in Cina,  quando le autorità di quel grande paese avevano nascosto al mondo importanti informazioni sulle fasi iniziali dell’  epidemia. Nei giorni successivi Ziad Memish, ministro della salute, in due comunicati a proMED-mail aggiunge altri casi e chiarisce meglio la dinamica degli eventi, che fanno riferimento ad una unica  struttura ospedaliera, che poi risulterà essere un centro di emodialisi. Un rapporto dettagliato, frutto della collaborazione di medici occidentali e sauditi, verrà pubblicato  a giugno sul giornale NEJM e definirà in maniera dettagliata tutti i particolari della vicenda.
 

Intanto altri due casi avvengono in Francia a Maggio,  il primo di ritorno da un viaggio a Dubai e il secondo un compagno di stanza inconsapevole.  Sempre a maggio la Tunisia conferma il primo caso. A giugno la stampa di casa nostra riporta con grande risalto che un cittadino di origini giordane, appena ritornato a Firenze dopo un soggiorno nella terra natale, viene ricoverato con polmonite e i test risultano positivi per il nuovo virus. Altri due vengono contagiati, una bambina di 2 anni e un collega di lavoro, in modo lieve. Le notizie sono inizialmente molto confuse, si segnalano altri 10-12 casi che vengono successivamente smentiti. Nell’ occasione c’ è stata parecchia confusione e comunicati discordanti che non hanno fatto fare una bella figura al nostro paese.


Intanto si sono approfondite le conoscenze sul nuovo virus. Si è scoperto che si lega ad una proteina chiamata DPP-4 che è presente nelle cellule di diverse specie animali e nelle cellule non provviste di ciglia dell’ albero respiratorio dell' uomo come pure nei reni, intestino, fegato e prostata. Dal punto di vista epidemiologico un’ importante scoperta è avvenuta con il riscontro di anticorpi contro il virus nei dromedari presenti in Oman e nelle isole Canarie e successivamente in Africa, indicando in questi animali il possibile serbatoio dell’ infezione e fonte principale di infezione per l’ uomo e l’ individuazione in un tomba  pipistrello  della stessa sequenza genetica individuata in un soggetto che si era ammalato e che abitava nella stessa area dove era stato catturato l' esemplare.

Durante l’ estate e l’ autunno il numero dei casi è calato considerevolmente e anche l’ Hajj di ottobre 2013 ha avuto luogo senza grossi inconvenienti.

Il bilancio della prima stagione non è stato drammatico, i casi in Arabia Saudita risulteranno essere 124 a fine ottobre, 51 dei quali fatali, in grande maggioranza persone anziane o fragili. Rimane però un interrogativo sulle conseguenze che l’ atteggiamento  poco disponibile e  trasparente delle autorità saudite avrebbe potuto produrre nel caso di un virus più minaccioso per la salute pubblica.
































domenica 14 dicembre 2014

Influenza e pseudoscienza








Dopo gli allarmi dei giorni scorsi sulle presunte morti da vaccino, di cui abbiamo discusso nel precedente articolo e che, come era prevedibile, hanno lasciato una coda di polemiche anche dopo l’ intervento dell’ EMA sulla assoluta estraneità dei vaccini negli eventi luttuosi che sono stati riportati, tiene banco in questi giorni la discussione sull’ utilità o meno della vaccinazione. A sollevare la questione, neanche a dirlo, le falangi degli  antagonisti ai vaccini con alla loro testa quelle che sono ritenuti le teste pensanti del movimento, mi riferisco ai dottori Serravalle e Gava. Ha iniziato quest’ ultimo a scrivere un articolo, ripreso da diverse riviste del settore e, successivamente, ha riproposto le stesse argomentazioni su Il Fatto Quotidiano in cui gestisce un blog. Prendendo spunto dalle vicende delle morti degli anziani, sferra un attacco nei confronti dei  vaccini influenzali, che considera non solo equivalenti a sostanza venefiche che uccidono più dell’ influenza stessa, ma anche inutili nel contrastare  una malattia che rappresenterebbe solo una delle tante patologie stagionali e, a ben guardare, neppure la più significativa.

Il dott Serravalle, un collega pediatra, parte dalle stesse vicende di cronaca per attaccare la campagna di vaccinazione in corso in questo periodo in Italia. Prende spunto da un allarme lanciato negli Stati Uniti a proposito di un ceppo circolante di influenza che non corrisponde a quello presente nelle formulazioni del vaccino, per criticare l’ inerzia delle autorità italiane nel dare risalto a questa notizia ( è evidente che bisogna essere solerti solo con le notizie che negano l’ efficacia del vaccino). A sostegno del  ragionamento, ci offre un saggio delle sue conoscenze riguardo le caratteristiche epidemiologiche del virus. E’ curioso come questi esponenti di primo piano  della galassia degli antivaccinatori si servano degli argomenti della scienza, perlomeno di quelli che si possono adattare alle loro interpretazioni e ai loro scopi, per attaccare le conoscenze scientifiche frutto di ricerche rigorose e su cui c’ è sostanziale unanimità. La loro formazione professionale fa si che si sentano autorizzati a proporre le loro dotte dissertazioni e a sedersi su entrambi i fronti, quello scientifico e quello antiscientifico, anche se sono totalmente schierati su quest’ ultimo.

Partiamo dal comunicato della CDC  sulla non corrispondenza tra ceppi circolanti e quelli presenti nel vaccino di quest’ anno. Come abbiamo discusso in un altro post, il virus influenzale ha una sua peculiare capacità di adattarsi alla pressione che subisce da parte delle nostre difese immunitarie, modificando la sua fisionomia e ripresentandosi ogni anno con rinnovato vigore, in una perenne lotta del gatto contro il topo. Con l’ allestimento dei vaccini si intende rinforzare le  armi a nostra disposizione anticipando le mosse dell’ avversario, ma non sempre questo riesce in modo efficace. Il motivo è che per produrre i vaccini sono richiesti tempi tecnici molto lunghi e questo dà spesso tempo al virus di subire delle modifiche tali da rendere il vaccino almeno in parte inefficace. E’ successo altre volte in passato e sta succedendo anche quest’ anno. Il vaccino deciso dall’ OMS per l’ emisfero nord contiene 3 ceppi, due di tipo A e uno di tipo B. Il ceppo  A-H3N2 presente nel vaccino si chiama A/Texas/50/2012 mentre negli ultimi bollettini di sorveglianza epidemiologica negli USA risulta che il 58% dei ceppi isolati appartiene al ceppo denominato A/Switzerland/9715293/2013. In gergo tecnico si dice che il virus ha operato un drift. Il ceppo A/Switzerland era stato isolato già a marzo ed è stato inserito nel programma vaccinale per l’ emisfero sud del prossimo anno. Questo potrebbe effettivamente rappresentare un problema, ma non nei termini che prefigura il dott Serravalle, secondo cui l’ allarme della CDC si riferirebbe alla mancata protezione nei confronti del nuovo ceppo. L’ allarme della CDC è rivolto principalmente nei confronti di una stagione in cui sembra essere dominante il virus di tipo H3N2 che,  come è stato in precedenti stagioni caratterizzate da questo sottotipo (2012-2013, 2007-2008, e 2003-2004), tende ad avere un impatto più severo e a provocare un maggior numero di decessi. Come ha chiarito Tom Frieden, il fatto che il vaccino possa conferire minore protezione NON è un motivo per abbandonare questa pratica, che anzi la CDC considera comunque la migliore protezione possibile e, per maggiore sicurezza, invita ad affiancarla al pronto utilizzo dei farmaci antivirali nelle situazioni di maggior rischio. Del resto il vaccino mantiene la sua validità nei confronti degli altri 2 ceppi presenti e potrebbe in parte proteggere anche nei confronti del ceppo emergente. Diversa è la situazione in Italia, ove il presunto allarme delle autorità sanitarie americane andrebbe esteso secondo Serravalle, perché non è per niente detto che si riproponga la stessa situazione ( storicamente si sono registrate spesso differenze significative di qua e di là dell’ atlantico) e, dai primi rilevamenti sul nostro territorio, sembra esserci una maggiore presenza del virus H1N1.


Ma veniamo alla questione proposta dal cardiologo, farmacologo, tossicologo dott Gava sulla marginalità dell’ influenza nel contesto delle malattie virali che circolano in ogni stagione. Per sostenere la sua tesi cita un articolo scientifico, apparso su American Journal of Epidemiology, che  illustra come sia suddivisa la torta dei patogeni che circolano nel corso della stagione invernale. In effetti l’ influenza non occupa la prima posizione, che è saldamente detenuta dai terribili rinovirus e si trova in netta minoranza quando si trova a fronteggiare da sola tutte le possibili altre cause di infezioni respiratorie. Pur rappresentando il 30% dei virus isolati, solo nel 9% dei casi si manifesta in maniera evidente. Il ragionamento, diciamolo subito, appare alquanto debole perché, per lo stesso motivo, il virus ebola dovrebbe sentirsi messo all’ angolo da una miriade di altri virus che stanno circolando, in misura certamente superiore, nelle aree dell’ africa occidentale colpite dalla epidemia. Ma forse i giornali sbagliano a dare risalto a questo virus e dovrebbero, per una sorta di par condicio, lasciare spazio anche a tutti gli altri. Indubbiamente l’ influenza non è ebola, non è così appariscente e clamorosa nei suoi effetti però, se per disavventura ci si imbatte in essa, ci si accorge subito di avere un quadro più severo e debilitante rispetto ai pur rispettabilissimi rinovirus, che lascia spesso strascichi che possono prolungarsi anche per diverse settimane. Io mi ricordo delle influenze che ho avuto, una nel 1977 - era l’ anno del ritorno del virus H1N1 che colpiva soprattutto i soggetti giovani - e un’ altra 7-8 anni fa quando ancora non mi sottoponevo alla vaccinazione (erano i tempi della beata ignoranza). Mi sono ammalato molte altre volte, con quadri di varia natura, che non mi hanno però lasciato una traccia cosi profonda nella memoria. Con questo non voglio dire che altri virus non possano essere responsabili di quadri severi. In letteratura sono documentate patologie molto gravi, anche in soggetti sani, legati agli adenovirus, ai metapneumovirus, agli enterovirus ( pensiamo all’ EV-D68 di cui vi ho parlato in un precedente articolo). Perfino tra i rinovirus  esistono ceppi che possono essere altrettanto severi, in particolare negli asmatici o nelle persone immunocompromesse. Ma si tratta o di eventi sporadici, che riguardano singole persone o cluster di pochi casi oppure epidemie che interessano aree circoscritte in tempi determinati. Il virus influenzale ha invece la caratteristica di determinare ogni anno e a livello globale epidemie di grandi proporzioni, che coinvolgono il 5-15% della popolazione nei periodi interpandemici e fino al 30% durante i grandi eventi pandemici, con ben documentate ricadute sulla salute pubblica in termini di accessi ai presidi medici, di ospedalizzazioni e di decessi. L’ unico virus che arriva ad  avere un impatto che si avvicina a quello dell’ influenza è il virus respiratorio sinciziale (RSV), responsabile di milioni di casi e migliaia di decessi, in prevalenza tra i bambini più piccoli ma in numero non trascurabile anche tra le file degli anziani
Per capire quale sia l’ impatto dell’ influenza è interessante un documento di cui sono venuto a conoscenza grazie a Ulrike Schmidleithner, autrice di un blog prezioso e ricco di informazioni.
Si tratta di un articolo pubblicato sul  Weekly Epidemiological Journal del 1970 che dimostra come eccezionalmente nell’ inverno 1966/67 a Glasgow, in Scozia, non abbia circolato il virus influenzale, mentre era presente l’ RSV. Come si vede dalla figura, in quell' anno non si è verificato il solito picco di polmoniti tra gli anziani, mentre è  presente quello tra i bambini più piccoli. Le cose sono andate in modo decisamente diverso nell’ inverno successivo, in cui si è ripresentato il virus influenzale. 

Il fatto è che ogni inverno, in misura più o meno marcata, si registra un aumento consistente della mortalità, che coincide solitamente con i mesi più freddi dell’ anno e a carico soprattutto delle persone fragili. Ma, guarda caso, il picco di mortalità accompagna sempre o segue di poco quello delle ILI e quest’ ultimo coincide con la massima circolazione del virus influenzale, che raggiunge il 40-50% degli isolamenti al suo apice. Nell’ anno della pandemia il virus H1N1, al pari di un’ onda anomala, ha colpito il nostro paese in netto anticipo rispetto al periodo in cui classicamente si manifestano i virus stagionali.
Il grafico fa vedere come  nei successivi mesi di gennaio e febbraio la curva delle ILI appaia del tutto appiattita, senza il tipico rigonfiamento. Dove erano finiti tutti gli altri virus che dovrebbero contribuire in maniera preponderante alla sua formazione? La verità è che ogni categoria di virus ha il suo periodo di prevalenza e questo si sovrappone solo parzialmente con quello di altri virus. E’ così che agli inizi della stagione dominano i virus parainfluenzali e i rinovirus, a dicembre il virus RSV mentre a gennaio-febbraio l’ influenza è regina quasi incontrastata. Proprio in questi mesi si registra l’ eccesso di mortalità, a cui certamente contribuiscono anche altri agenti infettivi, come pure le basse temperature e l’ inquinamento atmosferico, ma questi elementi, salvo rare eccezioni,  non spiegano le differenze così consistenti tra un anno e l’ altro, che possono arrivare a diverse decine di migliaia di morti. L’ osservazione epidemiologica ha invece messo in luce che  gli anni in cui la mortalità raggiunge livelli più elevati coincidono con la presenza di determinati ceppi influenzali, più spesso del tipo H3N2 anziché H1N1 o B, in particolare in occasione di cambiamenti significativi delle caratteristiche genetiche, come è successo ad esempio negli Stati Uniti e in Inghilterra con il ceppo Fujian nel 2003-04. Non risulta che in quelle stagioni vi sia stata un’ anomala circolazione di rinovirus, adenovirus, etc…
Il dott Gava ironizza sulla cifra di 8000 morti che verrebbero attribuiti annualmente all’ influenza, una quota che sarebbe troppo elevata se messa in rapporto con il dato europeo. Purtroppo, in Italia mancano dati di sorveglianza aggiornati e gli unici disponibili si riferiscono ad uno studio un po’ datato che ha analizzato l’ impatto dell’ influenza nelle stagioni dal 1969 al 2001. Dalle analisi si ricava un dato medio di ca 9000 decessi, con forti oscillazioni che vanno dai 57000 decessi del 1969 ( anno della pandemia di Hong Kong) ad anni in cui non si è verificato nessun eccesso. Le cifre di questi ultimi anni possono anche essere diverse, ma non è possibile negare l' impatto dell' influenza sulla salute pubblica e sulla mortalità.

In conclusione, va riconosciuta la grande versatilità del virus influenzale, che grazie alla sua ampia diffusione ( quei 30% di soggetti asintomatici a cui il dott Gava dimostra di non dare importanza), alla sua intrinseca capacità di adattamento e alla possibilità di attingere a un immenso serbatoio presente in natura, con tante specie animali che ospitano un numero elevato di varianti, propone una costante sfida alla nostra specie che non può essere banalizzata con  affermazioni basate su conoscenze superficiali e su atteggiamenti di pregiudizio.


domenica 7 dicembre 2014

Morti dopo il vaccino per l' influenza in Italia: causalità o casualità






 

Il 27-11 l’AIFA emette un comunicato in cui invita alla sospensione dell’ utilizzo di due lotti del vaccino Fluad della Novartis, in seguito al verificarsi di quattro eventi avversi gravi o fatali in persone anziane e  già gravemente ammalate in concomitanza temporale con la somministrazione.
Questo comunicato, che viene rilanciato da tutti i quotidiani nazionali,  suscita un enorme clamore su un argomento in cui da  tempo e in larghi strati della popolazione esistono perplessità e timori. In un simile terreno è inevitabile che, una volta accesa la miccia, non tardi a deflagrare l’ incendio e così è stato con un crescendo di morti, di allarmi, di disseppellimenti di cadaveri disposti dalle procure, di polemiche, di  comunicati delle pubbliche autorità e di esperti che hanno tentato invano di ridimensionare la faccenda quando ormai era troppo tardi e non hanno potuto impedire una fuga in massa dagli ambulatori. Potremmo considerarlo uno spassoso spettacolo offerto dalla compagnia italiana del melodramma  se non fosse un’immane tragedia per le sue implicazioni nell’ immediato e per il futuro. Una tragedia per le famiglie, che al lutto del proprio congiunto devono aggiungere una recriminazione che è destinata a lasciare aperta la ferita per molto tempo e una tragedia per le istituzioni pubbliche che vedono minata la propria credibilità su un tema così delicato come la tutela della salute e vedono messa a rischio non solo l’attuale  ma anche le future campagne di vaccinazione.
Alla fine è giunta la dichiarazione dell’EMA, ente di sorveglianza europea, che ha escluso l’esistenza  di qualsivoglia nesso causale tra la somministrazione del Fluad e gli eventi fatali che si sono registrati in Italia ma che difficilmente porrà fine alle polemiche.
Si poteva evitare di arrivare a questo punto? Io credo di si, sulla base degli antecedenti e delle conoscenze che ci vengono dalla letteratura scientifica.
L’allarme è partito dalla segnalazione di tre casi fatali e uno grave avvenuti a breve distanza ( entro 48 ore) dalla vaccinazione con due lotti del Fluad della ditta Novartis. Il Fluad è un onesto vaccino che è stato messo in commercio a partire dal 1997 e che da allora è stato già distribuito in 60 milioni di dosi in tutta Europa senza che siano stati segnalati eventi avversi di rilievo in 17 anni di onorato servizio. Ma questo vaccino contiene una sostanza, lo squalene, contenuta in un altro vaccino della Novartis (Focetria),  accusato di provocare gravi reazioni di tipo autoimmune  che, pur non essendo mai state dimostrate, hanno contribuito al fallimento della campagna di vaccinazione in occasione della pandemia, accuse che sono riaffiorate in seguito agli ultimi avvenimenti. In realtà si tratta di un semplice olio, presente in natura in molte specie e nell’uomo, che ha la funzione di promuovere la risposta immunitaria ai costituenti del vaccino nei soggetti, soprattutto anziani, che hanno un sistema immunitario più fragile e che sono a maggior rischio delle complicazioni legate all’ influenza.
 Ma vediamo di analizzare i casi fatali che sono stati segnalati dall’AIFA e di capire se c’ erano gli estremi per lanciare l’allarme. Dalle descrizioni disponibili risulta che si trattava di soggetti:
- di età elevata ( età media 80 anni),
 - affetti da patologie gravi
- morti per cause diverse, in maggioranza di tipo cardiovascolare

Appare subito evidente che gli eventi fatali hanno riguardato persone a rischio elevato di morte per le loro condizioni di base, in cui il vaccino potrebbe agire al massimo come elemento in grado di far precipitare situazioni già abbastanza instabili e, inoltre, gli episodi non  hanno avuto caratteristiche comuni che potevano al massimo giustificare il sospetto di una contaminazione, di tipo tossico o infettiva, dei lotti incriminati, visto che il vaccino era ben conosciuto e  collaudato, ipotesi che è stata successivamente smentita. 

Sono ben documentate situazioni in passato in cui i vaccini risultano fortemente indiziati di aver provocato più casi in tempi ravvicinati di reazioni avverse anche severe, come nel caso della sindrome di Guillain-Barrè dopo la vaccinazione per un virus suino negli USA nel 1976, i casi di narcolessia collegabili al vaccino pandemico Pandemrix o gli episodi di convulsioni febbrili nei bambini piccoli in Australia con il vaccino Fluvax della CSL. Ma  questi episodi mettono in luce come fatti di questo tipo coinvolgano vaccini del tutto nuovi ( in USA, Pandemrix) o cambiati nella loro composizione ( Fluvax che conteneva per la prima volta l’ antigene H1N1) e si presentino con quadri patologici ben definiti.
In questi ultimi anni si stanno purtroppo sempre più diffondendo nell’opinione pubblica internazionale linee di pensiero che vedono nei vaccini i responsabili di tutta una serie di problematiche che spaziano praticamente in tutto lo scibile  medico e li accusano,tra le altre cose, di essere alla base di decessi improvvisi, come i casi di SIDS nei bambini o gli episodi fatali a carico delle persone anziane, solo sulla base di un legame di tipo temporale. Il ragionamento che sta alla base di questo convincimento è che se un evento si verifica in breve successione ad un altro, quest’ultimo sia da ritenersi la causa del primo ( post hoc proper hoc). Ma l’elemento temporale è da ritenersi un fattore necessario ma non sufficiente a dimostrare il nesso causale. Per poterne determinare l’esistenza è importante verificare tramite opportune indagini che vi sia un meccanismo eziopatogenetico, cioè che il danno sia compatibile e spiegabile con l’evento che l’ha preceduto e, se questo non è possibile, che vi sia un aumento del fenomeno rispetto a quelle che possono essere le attese in base a precedenti valutazioni sul piano statistico.
Non è la prima volta che si verifica un  aumento apparentemente insolito di decessi che seguono la vaccinazione influenzale. Nel 2006, in Israele, si sono verificate quattro morti subito dopo la vaccinazione, in un breve periodo di tempo. L’allarme suscitato ha indotto il ministro della salute a disporre la sospensione della campagna di vaccinazione, che è stata ripresa dopo accurate indagini che hanno permesso escludere qualsiasi tipo di problema nei vaccini e qualsiasi correlazione degli eventi. Uno studio successivo ha calcolato che il  rischio di morte nelle persone con più di 55 anni è stato inferiore al rischio della popolazione non vaccinata.
In Olanda a Novembre dello stesso anno ci sono state 4 morti inaspettate il giorno stesso della vaccinazione in soggetti di età variabile tra 53 e 88 anni. In questo caso la campagna di vaccinazione non è stata interrotta perché una rapida valutazione epidemiologica ha appurato che si è trattato di  eventi casualmente coincidenti, in quanto rientravano tra quelli prevedibili in base ad un’ analisi basata su un modello matematico.

Possiamo distinguere gli eventi avversi successivi alle vaccinazioni in tre categorie: 

- eventi compatibili con quanto già si conosce in base ai dati disponibili, che sono quelli illustrati sul foglietto informativo
- eventi insoliti o mai manifestatisi prima o collegati a deterioramento o contaminazione del prodotto per i quali è importante la sorveglianza post-marketing, che consiste nella segnalazione da parte dei professionisti preposti e delle  persone direttamente danneggiate di tutte le conseguenze che si ritiene siano correlabili alla vaccinazione. In america, a questo proposito, esiste il VAERS  liberamente consultabile, nel Veneto il canale verde.
 - eventi non correlati alla vaccinazione ma che avvengono in un rapporto di coincidenza 


Purtroppo sulla base del solo nesso temporale vengono attribuite responsabilità che non esistono, come è avvenuto in Italia con le ultime sentenze della magistratura nei casi di autismo o di SIDS, in cui il cardine del ragionamento è: il bambino stava bene, è stato vaccinato e subito dopo ha sviluppato la malattia, in barba a tutte le evidenze contrarie della letteratura. Sulla base dello stesso criterio si è voluto attribuire un numero apparentemente cospicuo di decessi avvenuti in Giappone  durante la campagna di vaccinazione promossa dal governo per contrastare l’ influenza pandemica. Tutti i casi, come in Italia, hanno coinvolto persone anziane affette da malattie preesistenti e non si è considerato che sulla base di un semplice rapporto passivo dei dati non era possibile arrivare  a nessuna conclusione attendibile e  che usando un tasso grezzo sulla mortalità ci si poteva attendere 8000 decessi nei 20 giorni successivi alla vaccinazione.

Il fatto è che i sistemi di raccolta passiva, come il VAERS o sistemi analoghi, non sono affidabili per stabilire un rapporto di causalità e, ciononostante, vengono utilizzati dalle diverse sigle contrarie alle vaccinazioni per supportare le loro tesi. Per una valutazione più veritiera dell’impatto di un vaccino sulla mortalità bisogna far riferimento  a sistemi di raccolta dati più rigorosi e controllati come il Vaccine Safe Datalink presente negli USA già da tempo.  Dall’analisi dei dati relativi a 4 anni consecutivi, si è calcolato il livello basale di mortalità atteso nel periodo che va da 0 a 60 giorni dopo la vaccinazione, evidenziando che quello riscontrato risulta essere più basso rispetto al tasso di mortalità della popolazione generale e che le principali cause di morte coincidono. Tale studio può servire come confronto per stabilire se si stia verificando un aumento anomalo dei decessi legato a vaccini già in commercio o di nuova produzione. Ad esempio è stata calcolata quale sia l’incidenza di decessi che si verificano  il giorno stesso della vaccinazione che è pari a 5-6 ogni milione di dosi somministrate (1).

In conclusione ritengo che in Italia ci sia stata da parte dell’ AIFA una scelta indubbiamente dettata dalla prudenza  di fronte ad una situazione giudicata anomala e che non aveva precedenti da noi, ma  che si sia proceduto con troppa urgenza ed enfasi, senza effettuare  un’analisi attenta delle caratteristiche epidemiologiche e dei dati presenti in letteratura.







1) McCarthy NL, Weintraub E, Vellozzi C, Duffy J, Gee J, Donahue JG, Jackson ML, Lee GM, Glanz J, Baxter R, Lugg MM, Naleway A, Omer SB, Nakasato C, Vazquez-Benitez G, DeStefano F. MortalityRates and Cause-of-Death Patterns in a Vaccinated Population. Am J Prev Med 2013;45(1):91–97.  doi: 10.1016/j.amepre.2013.02.020