sabato 12 settembre 2020

Covid-19 e scuola: una proposta ragionata sulla base della revisione della letteratura

 





La pandemia da virus Sars-Cov-2 rappresenta una delle più importanti sfide della storia dell’umanità, se non la più grave in assoluto, sicuramente la più insidiosa. Già il fatto di averci colto di sorpresa nonostante la nostra scienza ed i nostri avanzati apparati tecnologici, la dice lunga sulla capacità di un microrganismo di appena 100 nanometri di diametro di scalare le classifiche delle più grandi minacce che l’uomo abbia mai dovuto affrontare. Eppure, quando è emerso in Cina alla fine del 2019 tutti hanno pensato ad un evento destinato a sgonfiarsi in poco tempo, sulla scia di avvenimenti analoghi del passato, come la Sars, la “Suina”, i virus Ebola e Zika, che in realtà erano degli avvertimenti di una crescente vulnerabilità del nostro mondo che non abbiamo saputo cogliere.

Nonostante siano passati ormai diversi mesi dalla sua comparsa, rimangono ancora molte questioni irrisolte.  La prima è relativa alla sua origine, che ha lasciato spazio alle teorie più fantasiose ed inverosimili e che ancora sta impegnando gli scienziati per cercare di ricostruire il suo percorso, da quelli che sono considerati gli ospiti naturali, i pipistrelli, fino ad arrivare a noi. Un’altra sono i meccanismi dell’azione patogenetica, con quadri patologici assai diversi che vanno da forme del tutto silenti a quadri devastanti di danno d’organo, con più organi e apparati che possono essere bersaglio diretto o indiretto del virus e con strascichi spesso prolungati della malattia, quali non si erano mai riscontrati con altre malattie, perlomeno non in questa entità. Un’altra questione sono le vie di propagazione, tant’è che non siamo ancora certi su come il virus si diffonda: si è parlato inizialmente di trasmissione solo attraverso le goccioline respiratorie più grandi (droplets) con un rischio solo per esposizioni prolungate e a breve distanza, mentre adesso molti sospettano che la diffusione possa avvenire, almeno in certe circostanze, anche tramite aerosol (micronuclei) e a distanze maggiori. Incerto ancora adesso è il ruolo della trasmissione per contatto, non si sa in che misura e per quanto tempo le superfici contaminate possano rappresentare un pericolo per chi viene a contatto con esse. 

Ma tra le varie questioni, nessuna è stata oggetto di così tante dispute e così aspri dibattiti quanto quella che riguarda il ruolo dei bambini nella diffusione della malattia.  Le classiche malattie respiratorie, quelle a cui siamo abituati nel corso della stagione che va dall’autunno alla primavera inoltrata, hanno la caratteristica di correre sulle gambe dei bambini, che sono quelli che si ammalano in misura nettamente superiore rispetto alle altre fasce di età, favorendo la diffusione della malattia nell’ambito sociale. La ragione è che i bambini sono immunologicamente più suscettibili e hanno legami sociali più stretti e prolungati rispetto agli adulti, oltre ad essere meno osservanti delle regole igieniche. Lo stesso comportamento era lecito attendersi dal nuovo coronavirus, ma le prime informazioni che sono giunte dalla regione della Cina inizialmente colpita erano di tutt’altra natura. I bambini risultavano ammalarsi non solo meno gravemente ma anche con percentuali decisamente più basse rispetto a quelle a cui siamo abituati con gli altri virus respiratori. Nella casistica finale relativa a tutti i casi registrati a Wuhan, solo il 2% era costituito da bambini. Inoltre diversi studi riportavano che quasi mai erano i bambini ad ammalarsi per primi almeno in ambito famigliare e che erano solitamente gli adulti a trasmettere loro la malattia. Di questi primi lavori ho parlato nel precedente articolo sullo stesso argomento nel mio blog, a cui rimando per chi volesse approfondire.

Un limite di questi primi studi è che hanno riguardato bambini sottratti alle normali abitudini sociali dai severi limiti imposti dal lockdown, che hanno fatto venir meno i rapporti stretti che solitamente intercorrono tra coetanei nell’ambito comunitario. L’unico paese in Europa che avrebbe potuto produrre degli studi più aderenti alla realtà è la Svezia, in cui le scuole primarie dell’infanzia sono rimaste aperte. Peccato che per scelta incomprensibile del suo comitato tecnico è stata esclusa qualsiasi forma di monitoraggio della situazione epidemiologica nell’ambito scolastico. 

Pochi studi hanno indagato che cosa succede con le scuole aperte.  In  Australia un'indagine epidemiologica  ha riguardato  735 studenti e 128 membri dello staff che erano stati in stretto contatto con 18 casi iniziali (9 pediatrici).  Nessun insegnante o membro del personale ha contratto il COVID -19. Solo un bambino di una scuola elementare e un bambino di una scuola superiore potrebbero aver contratto il COVID-19 dai casi iniziali nelle loro scuole. Bisogna però considerare il periodo estivo, la circolazione virale molto bassa e l’edilizia scolastica probabilmente non confrontabile con quella italiana. Ad analoghe conclusioni (e con limitazioni molto simili) sono arrivati gli autori di uno studio tedesco, recentemente pubblicato, relativo alla riapertura delle scuole a maggio nella regione del Baden-Wurttemberg.

Sul fatto che le scuole debbano riaprire sono tutti d’accordo, dall’OMS alle autorità sanitarie nazionali. Hanno ben chiari i danni che in caso contrario un’intera generazione potrebbe subire: danni allo sviluppo e alla preparazione, alle competenze sociali, al benessere psicologico e, non ultima, alla salute fisica di bambini e ragazzi. A questo proposito i CDC di Atlanta hanno redatto un documento in cui viene fortemente caldeggiata la riapertura delle scuole. I bambini sono a bassissimo rischio di complicanze, anche se rimane qualche timore per il possibile sviluppo tardivo della temibile MIS-C. Anche l’ECDC si è pronunciata a favore della riapertura.

 

Rimane però l’incertezza sul ruolo dei bambini come possibile serbatoio e potenziali propagatori del virus. Qualche lume è arrivato grazie a studi sia di modellistica che di analisi virologica usciti negli ultimi mesi.

 

Un primo studio che ha cercato di analizzare a fondo la questione mediante l’utilizzo di modelli matematici è stato pubblicato sulla rivista Science per opera di autori di grande valore. Nello studio viene ricostruita la complessa rete delle relazioni individuali nelle città di Wuhan e Shanghai, prima e dopo il blocco. Dall'analisi dei cluster famigliari è emerso che i bambini di 0-14 anni hanno una minore tendenza rispetto ai ragazzi più grandi e agli adulti ad ammalarsi (1/3 di probabilità a parità di contatti) ma che possono comunque risultare determinanti nella propagazione dell’epidemia in ragione del maggior numero di contatti interpersonali. La chiusura delle scuole, secondo gli autori, sarebbe in grado di ridurre del 40-60% il picco dell'epidemia e di ritardarlo nel tempo. Da questo studio emerge un’importante distinzione tra bambini più piccoli, che frequentano le scuole dell’infanzia e primaria e quelli più grandicelli, che vanno alle superiori. Una conferma che questi ultimi possano essere maggiormente a rischio di contagio (e trasmettano facilmente il virus) viene da uno studio sierologico retrospettivo di Fontanet, che ha analizzato quanto è accaduto in una scuola superiore del nord della Francia, dove il coronavirus si era diffuso silenziosamente a partire dalla terza settimana di gennaio: l'attack rate secondario risultava essere del 38,3% negli scolari, negli insegnanti del 43,4% e nel personale non didattico del 59,3%. Nelle famiglie invece l'attack rate secondario era più basso, 11,4% nei genitori e 10,2% nei fratelli.  Lo stesso Fontanet ha successivamente eseguito un’indagine mirata su 510 studenti di sei scuole primarie. Ci sono stati tre probabili casi di infezione da SARS-CoV-2 in tre diverse scuole prima della chiusura, che non hanno dato luogo a casi secondari tra altri studenti o personale docente. Molto probabilmente i bambini si erano infettati a casa. Un dato interessante in controtendenza è quello che risulta da uno studio italiano, da cui emerge che il 55% dei casi pediatrici (età media 3,3 anni) trovati positivi agli inizi dell’epidemia non sembra essersi infettato in ambito famigliare. 


Appare evidente come, alla luce di questi dati, ci siano ancora delle incertezze sul ruolo dei bambini anche se sembra delinearsi un aspetto importante, cioè il diverso comportamento in base all’età di appartenenza. Al di sopra dei 13-14 il rischio di ammalarsi e di contagiare altri soggetti sembra essere sovrapponibile a quello degli adulti. I bambini al di sotto dei 10 anni, al contrario potrebbero avere una minore propensione ad ammalarsi e, nel caso che si ammalino, a trasmettere il virus. Ma è proprio così?  Le cronache di questi ultimi mesi ci riferiscono di focolai epidemici importanti non solo nelle scuole frequentate dai ragazzi più grandi ma anche in centri estivi frequentati da ragazzini di età più basse, come quello registrato nella Georgia americana. 

Un tema controverso fin dall’inizio è stato stabilire non solo le modalità di contagio (droplets, aerosol, contatto) ma anche il potere contagiante dei singoli. Le domande erano numerose: quanto si è contagiosi, per quanto tempo, solo dopo la comparsa dei sintomi o anche prima, le differenze tra malati severi, lievi o addirittura asintomatici. 

In questi ultimi mesi è stata fatta luce su molti di questi aspetti. Innanzitutto si è scoperto che il contagio non avviene in maniera uniforme, come ad esempio con l’influenza, ma in maniera asimmetrica con singoli eventi chiamati di superdiffusione, anche se  non è ancora chiaro se siano legati a particolari situazioni, tipicamente locali chiusi poco ventilati  o anche a soggetti con maggiore tendenza a disseminare il virus nell’ambiente. Tali eventi sono all’origine dei clusters epidemici, che si ritiene siano responsabili della maggior parte dei contagi. Un fenomeno simile, che viene misurato con l’indice di dispersione K, accadeva anche con la vecchia SARS  e con la MERS. Con il Covid non è stato ben quantificato ma, si stima che tra il 10 ed il 40% di questi eventi sia responsabile dell’80% dei contagi.  Secondo un recente studio in Georgia(USA) il fenomeno appare più limitato ma comunque significativo, con il 2% dei casi che provocherebbero il 20% dei contagi

Un altro aspetto che è stato ormai ben definito riguarda i periodi in cui si è contagiosi. Sembra accertato che il periodo di contagiosità inizi prima dell’inizio dei sintomi. Uno studio di modellazione ha stimato che fino al 44% (25-69%) della diffusione avvenga nel periodo presintomatico, un altro che la trasmissione da parte di asintomatici e presintomatici sia responsabile di più del 50% del tasso di attacco complessivo. A sostegno di questa tesi è arrivata una ricerca del MIT e di Harvard che ha valutato la carica virale di 32480 residenti e membri dello staff delle case di cura del Massachusetts e ha rilevato  che la carica virale dei soggetti asintomatici è sovrapponibile a quella dei sintomatici. Ormai c'è un accordo quasi unanime che il periodo di contagiosità (virus vitale nell’orofaringe) non superi gli 8-9 giorni dall'esordio dei sintomi in quasi il 95% dei casi lievi, anche se il tampone rileva tracce del virus per periodi più prolungati e questo potrebbe consentire di rivedere la regola del doppio tampone, almeno nei casi lievi.

La ricerca ha permesso anche di chiarire l’aspetto della contagiosità dei bambini e di ribaltare l’idea iniziale che i bambini non rappresentassero un rischio per i loro contatti.

Già a maggio il virologo tedesco Drosten e i suoi collaboratori avevano dimostrato che la carica virale dei bambini, anche i più piccoli, non differiva sostanzialmente da quella degli adulti, mentre uno studio recente ha rilevato nei bambini sintomatici al di sotto dei 5 anni una  carica virale addirittura superiore a quella degli adulti. I bambini al di sopra dei 10 anni sono invece quelli a maggior rischio di trasmettere la malattia secondo uno studio coreano , mentre risulta nettamente più basso, ma non trascurabile, per quelli di età inferiore.  

 

Del resto dal punto di vista anatomico e della fisiologia respiratoria i bambini sono adulti in miniatura, per cui non c’è motivo di credere che un bambino positivo non sia in grado di diffondere il virus, anche se il volume d’aria espirato è inferiore a quello dell’adulto. Rimane invece plausibile che il bambino più piccolo possa avere una minore probabilità di ammalarsi, forse per una minore presenza di recettori ACE2 a livello delle alte vie respiratorie, così da ostacolare l’aggancio del virus.  Quello che appare certo è che i bambini hanno quadri più sfumati che rendono difficile la diagnosi, spesso (22%) sono del tutto asintomatici, così da avere maggiori probabilità di passare inosservati con o senza sintomi e continuare con le loro attività abituali, contribuendo alla circolazione virale all'interno della loro comunità: il 93% dei bambini infetti sarebbe stato perso utilizzando una strategia incentrata sul test dei soli pazienti sintomatici.

 

A fare maggiore chiarezza sono arrivati due studi pubblicati di recente. Il primo ad opera degli stessi autori dell’articolo di Science citato all'inizio, in una pubblicazione al momento in preprint: sulla base di 1178 individui e 15648 loro contatti hanno stimato che la percentuale di trasmissione presintomatica è pari al 62,5% e che la probabilità di trasmettere il virus non differisce tra soggetti adulti (15-64) e bambini (0-14) anche se la suscettibilità dei secondi ad ammalarsi risulta più bassa. È questo un dato di assoluto rilievo perché conferma che i bambini non sono diversi dagli adulti, in linea con quanto avevano già messo in luce gli studi precedenti, ma hanno una minore propensione ad ammalarsi, tanto più bassa quanto più sono piccoli. Un altro dato interessante che emerge dallo studio è che nella catena di trasmissione, quelli che sono più in alto (in ordine di contagio) hanno una maggiore infettività rispetto a chi sta più in basso (i casi secondari rispetto ai casi indice, i terziari rispetto ai secondari…)

Il secondo studio, pubblicato su Journal of Pediatrics  ci fa fare un passo ulteriore: i bambini infettati sono potenzialmente in grado di trasmettere il virus anche in presenza di forme lievi o addirittura asintomatiche. La carica virale in gola risulta essere più alta dell’adulto con forme severe e questo avviene indipendentemente dall’età.

 

Un altro aspetto di considerevole interesse che è emerso di recente è che, a differenza di quanto accade con le epidemie influenzali, le scuole non sembrano avere un ruolo trainante nello sviluppo dell’epidemia, ma vanno piuttosto “a rimorchio” della situazione territoriale. In un contesto di bassa circolazione virale e di attento monitoraggio del territorio, le scuole risultano essere scarsamente coinvolte. A Rhode Island nei mesi di giugno e luglio sono stati riaperti tutti i plessi scolastici, con 18945 bambini in tutto, arrivando a contare appena 52 casi di bambini e adulti positivi. Di questi, 39 sono stati registrati nelle ultime due settimane, in concomitanza con una ripresa della circolazione virale.  Una conferma viene da un altro studio che dimostra che il rischio di infezione in età pediatrica non dipende tanto dalle caratteristiche, dal comportamento o dalla socialità dei bambini, quanto dalla diffusione nella popolazione generale.

I punti fermi che si possono delineare da questa carrellata di studi:

i bambini di età scolare hanno un ruolo secondario nella propagazione dell’epidemia in ambito comunitario rispetto agli adulti, ma se l’epidemia raggiunge livelli elevati contribuiscono al suo allargamento

al di sotto dei 10 anni si ammalano di meno rispetto ai bambini più grandi e agli adulti, ma quando si ammalano hanno una contagiosità che non è inferiore a quella degli adulti (con un numero di contatti superiore)

al di sopra dei 13-14 anni la probabilità di ammalarsi e di trasmettere il virus è sovrapponibile agli adulti

la trasmissione del virus inizia già prima dell’esordio della malattia e anche in assenza di segni clinici, che comunque sono solitamente molto sfumati e di difficile riconoscimento

non è escluso che anche tra i bambini ci possano essere differenze nella capacità di trasmettere il virus con possibili fenomeni di superdiffusione

 

 PROPOSTA DI INTERVENTO

 

Vediamo quali possono essere le strategie che si potrebbero adottare per rendere più sicuro il ritorno a scuola dei bambini e dei ragazzi. Se per gli studenti universitari è sicuramente preferibile (e anche più accettabile) continuare con la DAD, il discorso per i ragazzi delle scuole primarie e secondarie è certamente più complesso. Dando per assodato che la scuola in presenza rappresenta la forma migliore di istruzione dal punto di vista pedagogico e sociale e che va considerata come una scelta prioritaria da adottare anche a costo di correre qualche rischio, ritengo tuttavia indispensabile che questo avvenga in modo ragionato e senza gli estremismi ideologici di chi dice che vanno aperte a prescindere, senza pensare alle possibili conseguenze. In un contesto ancora di grandi incertezze e con rischi potenziali tuttora elevati, non ci sarebbe nulla di peggio di un salto nel buio che ci obbligherebbe poi a ritornare precipitosamente (e rovinosamente) sui nostri passi.  Diciamo subito che il documento redatto dall’ISS, insieme alle regioni e ad altre figure tecniche, appare come un compromesso  che cerca di salvare le diverse istanze delle parti in causa, ma senza garanzie di sostenibilità sulla media e lunga distanza. Con queste linee guida si è cercato di dare indicazioni pratiche sulla gestione dei singoli casi, con una chiara definizione dei diversi ruoli, ma prevedendo troppi paletti ed ostacoli che rischiano di rendere accidentato il percorso anche in una situazione di bassa presenza del coronavirus e lasciando in sospeso quelle che sono le misure da adottare nel caso di una recrudescenza epidemica di cui ci sono già le prime avvisaglie. In effetti manca qualsiasi tentativo di contestualizzare i provvedimenti sulla base dell’effettiva situazione epidemiologica in cui le scuole si trovano ad operare, che potrà essere diversa da zona a zona e, nell’ambito della stessa zona, in periodi diversi.  Una pianificazione accurata risulta a mio avviso cruciale per il bene non solo delle scuole, ma anche dell’intera società. Nessuno sa che cosa realmente ci aspetta, ma ritengo sia doveroso cercare di prepararsi ad affrontare nel modo migliore i possibili scenari dei prossimi mesi.

La mia proposta è di considerare tre possibili scenari con misure diverse da adottare a seconda di quello che si verifica su base territoriale e temporale: uno scenario a basso, uno a medio e uno ad alto rischio. La differenza si deve basare su indicatori della situazione epidemiologica a livello del territorio (ad esempio la provincia). Ce ne sono diversi, come la crescita nel numero dei casi (Rt) o la sofferenza a livello di strutture ospedaliere, che hanno però il limite di essere tardivi. Quello che ritengo di più semplice utilizzo e con miglior corrispondenza  è la percentuale di tamponi positivi sul totale di soggetti testati, che viene indicato anche dall’OMS come uno dei più affidabili per capire se la situazione epidemica è sotto controllo o sta sfuggendo di mano. Il superamento della soglia del 5% è da considerare indicativo di un cattivo controllo territoriale e ci dice che siamo nello scenario più grave. Il basso rischio potrebbe essere una situazione in cui la percentuale è al di sotto del 2%, mentre le situazioni intermedie (2-5%) andrebbero a caratterizzare lo scenario a rischio medio. 

 

Rischio Alto

In una situazione di alto rischio epidemico (tanto più se cominciano ad esserci segni di sofferenza ospedaliera) le scuole di ogni ordine e grado andrebbero chiuse fino a che non si ritorni a numeri più rassicuranti o perlomeno non si abbia una stabilizzazione. E' troppo alto il rischio di lasciare le scuole aperte, perché c’è la concreta possibilità che possano fungere da amplificatori dell’epidemia, anche se i rischi per i bambini e ragazzi rimarrebbero bassi. La tutela della salute collettiva dovrebbe prevalere sul diritto ad una scuola in presenza. Si potrebbero eventualmente prevedere chiusure diversificate come tempi, partendo dalle scuole superiori per arrivare, nel caso di un peggioramento, alla chiusura di scuole primarie e dell’infanzia. 

 

Rischio Medio

 

Più problematico è lo scenario con rischio medio. In questo caso comincia ad esserci qualche affanno da parte dei servizi preposti, vuoi per l’aumento del numero dei casi, vuoi per un’insufficiente disponibilità di risorse umane e materiali. I focolai diventano più numerosi, si riesce ancora a controllarli ma non del tutto e per ogni focolaio risolto ce ne sono due o più che si aprono mettendo sempre più in difficoltà il personale dei dipartimenti di prevenzione. Questo scenario potrebbe evolvere più o meno rapidamente verso quello più severo ed è assai improbabile che le scuole non vengano coinvolte direttamente. Come successo negli Stati Uniti o in Israele, le scuole possono diventare punti critici della crescita epidemica, per cui la  gestione di situazioni problematiche deve essere il più possibile tempestiva. Le norme indicate  nelle linee guida ministeriali non sono a mio giudizio idonee a gestire il rischio più elevato che queste circostanze comportano. Gli studi ci dicono che i bambini si ammalano, anche se in misura minore e meno grave rispetto agli adulti e sono in grado di diffondere alla pari di questi. Il problema è che sono contagiosi anche in presenza di sintomi molto sfumati e, soprattutto, cominciano a diffondere il virus già due-tre giorni prima della comparsa dei sintomi e anche se rimangono del tutto asintomatici. Non è possibile controllare tali situazioni isolando e facendo il tampone ai soli soggetti sintomatici, con tempi tecnici di attesa che possono allungarsi man mano che i servizi territoriali vanno in sofferenza. Nel frattempo i focolai possono esplodere (specialmente nel caso di superdiffusione) con numerosi potenziali “untori” che  portano il virus a casa o in altri ambienti, contribuendo all’aggravamento della situazione epidemiologica.  La mia proposta in questo caso è di agire proattivamente, non aspettando l’esito dei tamponi, ma basandoci sul numero dei soggetti con segni di infezione per classe e/o per l'ntera scuola. Ci sono degli studi sulla prevenzione di situazioni analoghe con i virus influenzali, che danno delle possibili direttive da seguire. Ad esempio questo sui criteri e la durata dell’eventuale chiusura delle scuole,  questo  sul momento migliore per chiudere e questo  che fornisce un semplice algoritmo, eventualmente adattabile, per stabilire il giusto momento in cui chiudere una classe o l’intera scuola. Il principio basilare è che non si dovrebbe aspettare l’esito dei tamponi, ma che al superamento di determinate soglie di casi, si decide per i blocchi che poi potranno rientrare al momento della accertata negatività. È l’unico sistema per evitare che la situazione precipiti e, al tempo stesso, evitare chiusure ingiustificate se i casi sono isolati, che andrebbero seguiti secondo le linee guida emanate.

Rischio Basso

Nello scenario di basso rischio, con percentuale di tamponi positivi al di sotto del 2%, abbiamo la presenza di focolai che,  grazie all’attività di tracciamento, si riesce a tenere sotto controllo e una situazione negli ospedali tranquilla o comunque ben gestibile. È quello che abbiamo avuto per tutta l’estate, grazie principalmente al lockdown ma probabilmente anche alla stagione più favorevole. La mia proposta in queste condizioni è in controtendenza e probabilmente indigesta per molti, perché ritengo che non si debba fare nulla di più dell’osservanza delle norme igieniche-ambientali e del mantenimento di un certo grado di vigilanza, ma senza la necessità di intervenire invasivamente con test per ogni caso di febbre o di sintomi di tipo influenzale o intestinale. Da quanto abbiamo appreso dagli studi, laddove le scuole erano aperte e la presenza del virus su livelli contenuti, il rischio dei bambini di ammalarsi e di diffondere il virus è da ritenere estremamente basso e il gioco (le pesanti limitazioni imposte da isolamenti, necessità di eseguire test per ogni starnuto, rischio di chiusure dolorose di classi o intere scuole), non vale la candela (ricadute apprezzabili in termini di allargamento significativo dell’epidemia).

I bambini devono essere liberi di frequentare senza particolari vincoli, tollerando sintomi minori come il raffreddore che potrebbe perfino essere uno scudo protettivo nei confronti di virus più temibili come il coronavirus, limitandoci all’allontanamento o all’invito a stare a casa dei bambini con sintomi più severi, come si è sempre fatto in passato.In questi casi non deve essere richiesto il certificato medico per il rientro, al massimo un'autocertificazione dei genitori. Nell’attesa che vengano autorizzati e resi disponibili i test rapidi salivari che potrebbero essere impiegati su larga scala a scopo preventivo e diagnostico, si potrebbero fare test a campione sui casi segnalati, di più se ci fosse qualche focolaio sospetto. I casi più impegnativi ovviamente andrebbero sempre indagati. Ma si può consentire alla scuola di condurre una vita quasi normale, destinando le risorse limitate di cui disponiamo al monitoraggio del territorio e alla prevenzione dei focolai ben più pericolosi.

 Ovviamente se si passa da uno scenario all’altro, con degli opportuni tempi di attesa affinché il trend si stabilizzi, si cambiano le modalità di intervento secondo lo schema che ho indicato.


Si tratta di una proposta che vuole essere un approccio ragionato e basato sulle evidenze disponibili per la gestione delle diverse problematiche legate alla riapertura delle scuole nei prossimi mesi, nel tentativo di rendere meno accidentato il percorso e di salvaguardare al tempo stesso la salute pubblica. Ovviamente è una proposta aperta alla discussione e al contributo di tutti quelli che si stanno impegnando per trovare delle soluzioni ai tanti interrogativi che vengono sollevati da tutte le parti.

Il messaggio finale della mia lunga ma spero proficua disquisizione è che dobbiamo adoperarci tutti affinché si permanga nella situazione di basso rischio, così da evitare situazioni di stress per la società, per le famiglie e per tutti i nostri ragazzi, nell’attesa che diventino disponibili su larga scala trattamenti preventivi (vaccini) e terapeutici (anticorpi monoclonali?) che possano rivelarsi degli autentici “game changers”.

 

domenica 14 giugno 2020

La riscossa dei chierici ai tempi del Covid 19


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In queste settimane di graduale affrancamento dai ceppi, assistiamo alla rinascita di una schiera di personaggi che l’emergenza aveva relegato in ruoli di secondo piano, ben al di sotto delle loro aspirazioni ad essere protagonisti anche in questo passaggio cruciale della nostra storia. Mi riferisco a esponenti di spicco in ambito clinico e del mondo accademico, con posizioni di prestigio ed elevati indici nelle pubblicazioni scientifiche, non importa se ottenuti grazie al lavoro oscuro di dottorandi sottopagati. Sono i “chierici”, stirpe eletta che gode di grande considerazione e che si reputa depositaria del sapere, con libertà di pronunciarsi su qualsiasi argomento dello scibile umano.  Quando l’epidemia era ai suoi esordi, avevano fatto sentire la loro voce, ma solo per liquidare la vicenda come l’ennesimo falso allarme, alla stregua di eventi simili del passato, in cui avevano dato prova della loro sagacia. Si trattava di una semplice influenza, sostenevano con spavalderia. Ma questa volta le cose sono andate diversamente e sono stati costretti al silenzio, anche se nel loro intimo covava una grande rabbia per il fatto di vedersi scavalcati dalle figure dei tecnici, persone abituate a lavorare alacremente nell’ombra, ma che hanno il grande torto di non avere gli stessi titoli ed onorificenze. Con il diradamento dei focolai e l’allontanamento della minaccia si è presentata l’occasione per la rivincita.
Tutto questo rappresenta un dejà vu, una rievocazione di quanto successo nel 2009, l’anno della pandemia influenzale. Anche in quell’occasione si erano alzate le voci dei tanti “esperti”, di quelli che “ho capito tutto subito” e “non mi faccio condizionare”. Riavvolgiamo la pellicola e proiettiamo alcune brevi sequenze di quel periodo.
A Marzo del 2009 risalgono le prime notizie di un nuovo virus, isolato negli USA ma i cui primi casi si erano manifestati nel Messico, che coglie di sorpresa le autorità sanitarie e l'opinione pubblica mondiale. Un evento di questo tipo in verità era lungamente atteso, almeno dai maggiori organismi sanitari mondiali, che negli anni precedenti avevano prefigurato scenari potenzialmente drammatici legati ai temibili ceppi aviari, primo fra tutti l'H5N1, responsabile di epidemie devastanti negli allevamenti avicoli e di diversi casi umani. Nessuno si aspettava che un virus pandemico potesse nascere in occidente e che avesse la sua origine nella popolazione di suini, che avevano tenuto in ibernazione un virus discendente dal vecchio ceppo H1N1 del 1918, successivamente rimescolatosi con virus aviari e virus umani per dare origine alla nuova epidemia. Tant'è, quanto accaduto ci insegna come il virus influenzale sia imprevedibile e quanto la sorveglianza debba essere a 360 gradi, non limitandosi, come dimostrano gli eventi di questi giorni, ai soli virus influenzali. L'annuncio da parte dell'OMS della nuova pandemia, a giugno del 2009, aveva come scopo principale quello di avviare la produzione dei vaccini e dare attuazione ai piani pandemici delle nazioni, ma ha avuto l'effetto di creare sgomento nella popolazione mondiale, che accostava quanto stava accadendo al ricordo di tragedie dei tempi lontani. Con il passare delle settimane ci si è resi conto che non si trattava di un’ecatombe, non c’erano le cataste dei morti ai lati delle strade e il virus dilagava nel mondo senza lasciare dietro di sé rovine fumanti. Fin dagli inizi non sono mancati gli opinionisti alternativi, quelli che sono soliti ad “andare contro” qualsiasi iniziativa o delibera che provenga dalle pubbliche autorità, che sono viste come emanazione dei superpoteri occulti, trovando nei social media una cassa di risonanza delle loro tesi deliranti. Il loro tamtam mediatico si è fatto sentire sempre più forte, man mano che le paure di una catastrofe si ridimensionavano e si aprivano le praterie alle teorie dei complotti, conquistando fette sempre più larghe dell’opinione pubblica, spazi sempre più ampi nelle pagine dei giornali fino a coinvolgere giornalisti, politici di primo piano e, ahimè, ha finito per contagiare anche estese aree del mondo scientifico.  Alla fine l’OMS è stata messa alla sbarra con l’accusa di aver allarmato inutilmente il mondo e di aver proclamato una pandemia fasulla, condizionata dai colossi farmaceutici che hanno alimentato le paure al solo scopo di vendere farmaci e vaccini non solo inutili ma anche pericolosi. Il virus, si sosteneva, era una semplice variante dei virus stagionali, perfino più blanda.
Sono passati 10 anni e molti aspetti di quella pandemia sono stati chiariti, dando ragione a chi si è impegnato in prima persona per cercare di smontare le tesi complottiste e per far venire a galla la verità. Il virus H1N1 aveva tutte le carte in regola per essere definito un virus pandemico. Era del tutto nuovo, anche se condivideva parte del suo patrimonio genetico con i virus del passato, si era diffuso per ondate successive nel corso dei mesi estivi e autunnali a dimostrazione della sua "novità" rispetto ai virus stagionali e, soprattutto, aveva causato un bilancio di vittime che, seppure non elevatissimo, risultava importante per  fasce della popolazione solitamente risparmiate dai virus tradizionali, con i giovani maggiormente presi di mira rispetto gli anziani.  Erano queste verità evidenti già all'epoca, almeno per chi si era preso la briga di studiare le lezioni del passato, le uniche che permettevano di interpretare correttamente gli avvenimenti.
I chierici sono stati lesti a salire sul carro dei “vincitori”, unendo le loro sapienti parole ai linguaggi più sgangherati che si udivano nelle piazze, con toni certamente più misurati ma non meno pungenti nella sostanza.  I nostri chierici non avevano le conoscenze di base per capire che cosa stava effettivamente accadendo, ma la smania di protagonismo, la ricerca di un quarto d’ora di gloria sotto le luci di una telecamera, li portava a dispensare le pillole del loro finto sapere ad una folla che si specchiava deliziata nelle loro proposizioni elegantemente destabilizzanti. La pandemia era una farsa e bisognava richiudere nei loro recinti i tecnici, sostenitori di una scienza astrusa fatta di aride formule matematiche, che avevano ingannato e spaventato l’umanità con le loro pessimistiche previsioni.
Si può pensare che sia finita lì e che siano eventi da considerare archiviati. Non è così. Quelle prese di posizione hanno non solo contribuito alla disfatta delle campagne di sensibilizzazione della popolazione per quanto riguardava i comportamenti prudenti da adottare e alla diserzione di massa dalla campagna di vaccinazione ma anche alla perdita di credibilità delle nostre istituzioni. Di ciò abbiamo pagato le conseguenze per anni, con il crollo delle percentuali di vaccinazioni per l’influenza e successivamente anche di altre vaccinazioni fondamentali. Ma l’aspetto più grave è che la sottovalutazione del virus H1N1 ha comportato una mancata presa di coscienza del rischio da parte di tante, troppe persone che sono finite attaccate ai ventilatori e alle macchine salvavita nei reparti di rianimazione di tutta Italia e molti di loro sono deceduti nel corso di più stagioni. Tutto questo per un virus che è stato etichettato come più blando di un virus stagionale. Ma bisognava voltare pagina e ritornare a fare “vera” scienza, queste sono bazzecole.
Ma torniamo ai nostri giorni.  I chierici, dopo lo sbandamento iniziale, hanno fiutato il momento favorevole per tornare a far sentire la loro voce, grazie al credito di cui dispongono presso gli organi di stampa. E lo hanno fatto lanciando dei messaggi molto forti, con lo scopo di dare una decisa scrollata alle certezze maturate fino a quel momento.  
La pandemia questa volta è veramente iniziata (a differenza del 2009), ma ha già esaurito la sua carica e ha lasciato il suolo italico. Se poi nel resto del mondo non è così non ha importanza, ha preso un biglietto di sola andata. Del resto tutte le pandemie prima o poi finiscono, questa è stata oltremodo gentile e dopo neppure 6 mesi deve essere considerata già defunta. Il blocco può avere in parte aiutato, ma il virus è dotato di un orologio che comunque ne decretava in anticipo il suo esaurimento, come dimostrano le vicende dei suoi predecessori (uno). Dobbiamo credere al loro intuito di clinici di lungo corso.
La responsabilità più grande per le misure che hanno messo in ginocchio l’intero paese ce l'hanno i tecnici, che hanno abilmente manovrato i politici. Sono loro la causa di tutte le sciagure che sono capitate in Italia, con le loro previsioni catastrofiche, con le loro misure draconiane e liberticide, con la loro cieca ostinazione.
Come nel 2009, la folla plaude alle loro dichiarazioni che vengono viste come dimostrazione di tutti i loro convincimenti. Tra di loro tanti negazionisti, complottisti, antivaccinisti, terrapiattisti, nanoscopisti.   In fondo da “è già finita” a “non è mai realmente iniziata” il passo è breve. La galassia degli anti è tutta un tripudio.
Può anche essere, anche se improbabile, che il virus non torni più o si ripresenti nelle vesti di un agnellino. Ma il danno di immagine per le nostre istituzioni sarà enorme e si ripercuoterà per gli anni futuri, scavando un fossato ancora più grande tra i cittadini e i loro rappresentanti.