Durante
l’ autunno del 2009 era alta l’ attesa
in Italia per l’ arrivo del nuovo virus
influenzale H1N1, battezzato dall’ OMS come il protagonista della prima pandemia
del 21° secolo. Il virus viene chiamato
inizialmente messicano perché dal Messico, precisamente dal villaggio di La
Gloria, sembra sia partito il primo focolaio epidemico, anche se il primo
isolamento è avvenuto in un bambino americano, figlio di un militare. In
seguito viene abbandonata la dizione di tipo geografico e viene adottato il termine
di suina, per sottolineare la provenienza del virus dalle popolazioni dei
maiali che per lunghi anni sono stati depositari dei predecessori del virus,
prima di produrre una variante che, grazie all’ innesto di componenti umane e
aviaria, è stata capace di trasmettersi efficacemente negli uomini. Tale
termine, anche se impropriamente, viene utilizzato ancora oggi in merito ai
casi riportati dalle cronache in varie parti del mondo. I primi casi sporadici
nel nostro paese si sono verificati durante l’ estate del 2009, per lo più di
importazione. A fine agosto fa scalpore la notizia di un ragazzo di Parma che
viene colpito da una forma particolarmente severa e che solo dopo diversi giorni di ricovero in terapia intensiva a
Monza riuscirà a sconfiggere il virus. Nel frattempo prendono sempre più piede le voci che vedono nella nuova
epidemia l’ ennesimo falso allarme lanciato dalle autorità mondiali, per
suscitare paure ingiustificate e favorire gli interessi di importanti gruppi
economici che lavorano nel campo della produzione di vaccini e
di farmaci antivirali. L’OMS, in verità, ha esitato non poco prima di annunciare la fase 6, che è quella
che segna ufficialmente l’ inizio di una nuova pandemia e l’ avvio dei piani di
preparazione da parte di tutte le nazioni. Per ben 5 settimane la
lancetta rimane ferma alla fase 5 e, in
quel periodo, sono molte le pressioni che arrivano da varie parti per non fare
un passo che avrebbe potuto creare eccessivo allarme nelle popolazioni
mondiali. Il virus infatti, nonostante una propensione a diffondere con grande velocità
e a raggiungere in tempi brevi diversi paesi in diverse aree del pianeta, non
sembra così aggressivo come i primi casi avevano fatto temere. E’ vero che
non mancano segnalazioni di casi gravi che risultano colpire
particolarmente i soggetti giovani, ma si è ben lontani dagli scenari
catastrofici che la crescente pericolosità dei virus aviari aveva fatto
prevedere. Si cerca di mettere a punto frettolosamente un sistema che tenga
conto anche della gravità, ma si sarebbe dovuto necessariamente tener conto
di un impatto diversificato a seconda dei vari paesi colpiti e, alla fine, si
giunge alla proclamazione della fase 6 sulla base del dato della diffusione planetaria. In tempi successivi un
apposita commissione di esperti, chiamati a dirimere la questione se sia stato
giusto o meno fare tale annuncio, si pronuncerà prosciogliendo l’ OMS dalle
accuse che le erano state rivolte, anche se punta il dito su alcune ombre nella
gestione delle fasi dell’ emergenza.
Ma torniamo all’ Italia. I piani pandemici,
predisposti fin dal 2006, sono già operativi e dalla fase di contenimento si passa alla fase di mitigazione. A
questo scopo sono stati sottoscritti i contestatissimi accordi tra il governo
italiano, rappresentato dal ministro Sacconi, e la casa farmaceutica Novartis,
per l’ acquisto di 184 milioni di euro di vaccini. Gli accordi secretati
verranno poi divulgati dalla rivista Altreconomia. Il governo decide di varare una campagna informativa sia mediante
l’attivazione di un numero verde dedicato sia con la scelta di un testimonial
che viene ripescato dalla tradizione televisiva di 50 anni prima: Topo Gigio.
Lo
scopo evidente è quello di utilizzare un volto famigliare e accattivante per
diffondere messaggi di tranquillità alla popolazione e per fugare ogni motivo
di allarme. In alto nella locandina campeggia la scritta: l’ influenza H1N1 è
un’ influenza come tante. A rafforzare questo messaggio ci sono anche le prese
di posizioni dei rappresentanti delle nostre istituzioni che di fronte ad ogni
caso grave e fatale hanno attribuito le cause alle condizioni precarie di salute delle persone colpite. Il ministro
Fazio, quando l’ epidemia era ancora agli inizi, rilascia un comunicato ripreso
da più testate giornalistiche in cui afferma che, in base ai primi bilanci, si trattava di un’ influenza più leggera di quelle stagionali. Questi messaggi hanno
finito per disorientare la popolazione a cui, nel contempo, si chiedeva uno
sforzo non comune per aderire ad una campagna di vaccinazione senza
precedenti e hanno finito per rendere
ancora più radicata la convinzione che si trattasse in realtà di una gigantesca
montatura a danno delle finanze dello stato e della salute della gente. Il
risultato è stato il flop della campagna preventiva, con le persone che hanno
finito per temere di più i rischi dell’ iniezione rispetto ai rischi della
malattia. L’ intenzione è stata certamente quella di evitare il panico e i problemi
di ordine pubblico, con i servizi di emergenza presi d’ assalto e l' abbandono dei
luoghi di lavoro ma il risultato è stato che non poche persone si sono ammalate
gravemente e sono decedute per aver sottovalutato il pericolo e per non essersi
adeguatamente protette. Il bilancio conclusivo non è stato certamente
drammatico, ma viene da chiedersi che cosa sarebbe potuto accadere se l’
epidemia si fosse manifestata in forma più severa e non si fosse cambiato registro
nelle comunicazioni ufficiali.
Abbiamo
un precedente importante che illustra bene che cosa può comportare questo tipo
di atteggiamento da parte delle autorità pubbliche. (1)
Evitiamo gli errori del 1918
Negli
USA le prime avvisaglie di quella che sarebbe stata una delle peggiori
catastrofi nella storia dell’ umanità si hanno nella primavera del 1918, ma non
lasciano presagire quello che sarebbe avvenuto in seguito. Gli effetti sono più
evidenti in Europa, dove iniziano a morire parecchi soldati impegnati nei
fronti della grande guerra. Alla fine dell’ estate un’ epidemia più severa
colpisce la Svizzera e, a questo riguardo, i rapporti dell’ intelligence
parlano di una situazione che richiama le epidemie di peste delle epoche
medievali.
Il
governo americano decide di adottare la stessa strategia di comunicazione
utilizzata per informare la popolazione sull’ andamento della guerra, che
consiste nel dare un’ immagine edulcorata di quella che è la cruda realtà dei
campi di battaglia. La gente non ha diritto di conoscere come stanno realmente le cose
perché ha un livello infantile di comprensione e la conoscenza della verità
potrebbe generare malcontento e contrarietà.
Quando
l’ epidemia si diffonde nel territorio americano, il presidente non rilascia
nessuna dichiarazione e i membri del suo governo si limitano a dare notizie
rassicuranti. Secondo i responsabili dell’ amministrazione pubblica non c’ è
motivo di creare allarmi quando vengono prese le giuste contromisure per far
fronte alla minaccia. A questa strategia
si allineano anche i politici e gli ufficiali sanitari a livello
periferico. Il direttore della salute pubblica di Chicago afferma che il suo
compito è quello di tenere la gente lontana dalla paura perché la
preoccupazione uccide più della malattia. Tutti i messaggi che arrivano alla popolazione attraverso i vari canali
della comunicazione sono rivolti a trasmettere
un senso di sicurezza e di controllo, sui cartelloni pubblicitari
spicca la scritta che si tratta solo della vecchia influenza mascherata sotto
un nuovo nome. Ma in realtà non è una
banale influenza, poiché si muore anche in 24 ore e i quadri
sono talmente gravi da venire scambiati per tifo o colera. In alcuni casi le
persone ammalate perdono sangue non solo dalla bocca e dal naso, ma anche
dalle orecchie e dagli occhi.
Nonostante
la gravità della situazione il governo e i giornali continuano a
rassicurare. A Filadelfia, il responsabile locale per la salute assicura che non
ci sarà nessuna difficoltà nel contenere l’ epidemia. Quando il
bilancio delle vittime comincia a salire afferma che la situazione è sotto
controllo. Quando muoiono 200 persone in un giorno dichiara che il picco della
malattia è già stato raggiunto. Quando ne muoiono 300 giura che si è arrivati
alla cima. Alla fine i decessi toccano i 759 in un solo giorno e la stampa
locale smette di interpellarlo. In molte altre località si adotta la stessa
strategia, nonostante che il numero di decessi sia talmente alto che si rende
necessario scavare delle fosse comuni. A Camp Pike, 8000 soldati vengono ricoverati nell’ arco
di 4 giorni, ma un giornale di una località vicina scrive che l’ influenza
spagnola è uguale alla normale influenza: stessa febbre e stessi brividi.
La
conseguenza di questa strategia di comunicazione è il terrore. La gente perde
la fiducia nelle pubbliche autorità e finisce per dare ascolto alle voci e alle
fantasie più terribili. Si comincia ad avere paura di ogni contatto umano fino
ad arrivare alla rottura del tessuto che tiene unita una società. Ovunque la
paura, non la malattia, tiene le persone in casa con il risultato di provocare
un massiccio assenteismo. Le conseguenze sono gravissime per tutte le attività sia
pubbliche ( a cominciare dagli ospedali) che
economiche, con la paralisi delle attività lavorative, dei trasporti e
dei mezzi di comunicazione, aumentando così il senso di isolamento delle
persone. La gente muore di fame perché i negozi hanno le saracinesche chiuse e
non c’ è nessuno che porta cibo nelle case, per paura della malattia. Se fosse durata ancora qualche settimana si sarebbe arrivati al crollo completo della società
civile.
Ma
ci sono stati anche esempi virtuosi come a San Francisco dove, dopo un momento
di sbandamento iniziale, le pubbliche autorità si sono rimboccate le maniche e
hanno iniziato a dare informazioni semplici ma concrete, come l’ invito a
indossare le maschere e la società ha retto all’ impatto senza crollare
completamente. Si è visto che quando la gente è correttamente informata diventa
capace di atti di abnegazione e di eroismo.
Questa lezione dovrebbe valere anche per i nostri giorni,
ma purtroppo non è stata fatta
propria dai nostri amministratori. In occasione dell’ emergenza
pandemica, l’ atteggiamento è stato di negare che esistesse una vera emergenza
e si è affermato ripetutamente che le
persone non correvano nessun serio pericolo a meno che non fossero affette da
gravissime patologie. In realtà non poche persone perfettamente sane sono state
ricoverate per periodi prolungati e sottoposte a terapie rianimatorie
impegnative e molte sono decedute.
Le conseguenze non sono state drammatiche così come è avvenuto con i fatti del
1918 solo grazie ad un’ epidemia che si è dimostrata relativamente
blanda. Ma il doppio binario seguito dalle nostre autorità, con lo sforzo prodotto
per mitigare i danni della pandemia
vanificato da un’ informazione che è sempre stata tesa a minimizzare i rischi, ha portato alla perdita
di fiducia da parte della popolazione e
all’ abbandono di pratiche sicure come la vaccinazione, con
ripercussioni negative non solo nell’ immediato ma anche negli anni a
venire. Se il virus non è dissimile dalle comuni influenze del passato, perché le persone di mezza età,
affette da patologie non particolarmente gravi o appartenenti a categorie non
tradizionalmente associate ad un rischio elevato, come le donne in gravidanza o
gli adulti in soprappeso, dovrebbero preoccuparsi di un pericolo che non si è mai presentato come tale davanti ai loro
occhi? Per evitare allarmi eccessivi e disordini si è rinunciato a condurre
idonee campagne di sensibilizzazione che rendano consapevoli le persone e si è cercato invece di scaricare la
responsabilità sui singoli individui, rei di non aver adottato comportamenti
sicuri, vuoi per convinzioni personali vuoi perché spaventati
da notizie infondate come quella relativa alle morti associate alvaccino Fluad ( non dimentichiamo che l’ allarme è partito da un ente istituzionale).
Il mondo è certamente diverso da quello del 1918,
ma la pandemia del 2009 e la vicenda dell’ epidemia di ebola hanno dimostrato
quanta strada ancora si debba fare per riuscire a fronteggiare in maniera
adeguata le emergenze e dobbiamo ringraziare solo la “mitezza” della prima e la scarsa
trasmissibilità del secondo se non siamo stati sommersi come nel 1918. Un ruolo chiave è dato dalla comunicazione, che deve essere trasparente, equilibrata e coerente, non allarmistica ma neppure reticente e deve saper dare una chiara indicazione di quali siano i rischi reali e quali i margini di incertezza. L’ obiettivo deve essere quello di costruire un clima di fiducia e di far sentire la gente una parte direttamente coinvolta nella gestione della crisi e non una mandria da governare. E’ iniziato il conto alla rovescia per la prossima emergenza. Non facciamoci trovare ancora impreparati.
1) Pandemics: avoiding the mistakes of 1918
John M. Barry Nature 459, 324-325 (21 May 2009) | doi:10.1038/459324a
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