Le due principali categorie di agenti patogeni sono i
batteri e i virus. Nei confronti dei primi possediamo da ormai 80 anni armi
potenti, gli antibiotici, che hanno consentito di vincere importanti battaglie
nei confronti di germi che in passato
rappresentavano un’ importante causa di mortalità. Grazie al
potenziamento dei vecchi preparati e alla produzione di nuove classi di
molecole, riusciamo a curare ancora oggi molte patologie potenzialmente gravi,
anche se desta preoccupazione il fenomeno delle resistenze e la prospettiva che
di qui a 10 anni ci possa essere una sostanziale perdita di efficacia di questi
fondamentali strumenti di contrasto. Per quanto riguarda i virus, è molto più
recente la storia dello sviluppo di molecole ad azione antivirale. Per lunghi
periodi ci si è basati esclusivamente sull’ azione preventiva dei vaccini, che
pure hanno consentito di raggiungere traguardi fondamentali come l’
eliminazione del vaiolo e la forte limitazione di altre malattie pericolose
come la poliomielite e il morbillo.
Altre malattie virali hanno invece rappresentato una sfida negli ultimi decenni,
poiché per lungo tempo non si è stati in grado di sviluppare contromisure
efficaci, come nel caso del temibile virus HIV, caratterizzato da una
grande mutevolezza, tale da renderlo imprendibile dalla memoria immunologica indotta dal vaccino. Da questo presupposto derivò un forte impulso allo sviluppo di farmaci, fino ad arrivare all'
importante traguardo della messa a punto degli antiretrovirali che, pur non
eliminando il virus, riducono fortemente la sua proliferazione e consentono la
ricostruzione delle difese immunitarie del soggetto colpito, garantendone prospettive di vita decisamente migliori.
L’ influenza rappresenta un’ importante patologia su cui si
è concentrata la ricerca terapeutica in questi ultimi anni, man mano che si è
preso consapevolezza della pericolosità del virus e dell’ impatto in termini di
morbilità e di mortalità, anche senza dover richiamare alla memoria eventi lontani
come le pandemie del 20° secolo. Tradizionalmente si ricorre alla vaccinazione
per cercare di limitare gli effetti della malattia. Il primo vaccino è stato
sviluppato nel 1938, ad opera di Jonas Salk ( che poi da quella ricerca prese spunto
per poi arrivare a sviluppare il vaccino antipolio che porta il suo nome) e Thomas
Francis e venne usato per proteggere i soldati americani durante la seconda
guerra mondiale. I primi vaccini non erano purificati e sviluppavano frequenti
effetti collaterali e solo dagli anni 70 si è arrivati alla produzione di
vaccini più moderni. I vaccini influenzali non sono stati in grado di emulare i
successi raggiunti con altre malattie a causa dei limiti intrinseci in termini
di durata limitata della protezione, un’ efficacia che arriva al massimo al
70-80% e una ridotta accettazione da parte della popolazione, tutti fattori che
non consentono attualmente di creare un’ effetto di “immunità di gregge”, che è
quell’ ombrello protettivo che copre anche chi non si vaccina, grazie ad un
numero sufficientemente ampio di vaccinati.
A partire dagli anni 50 ha avuto
inizio la ricerca di composti che fossero in grado di neutralizzare i virus
influenzali. Storicamente i primi farmaci a trovare impiego per la lotta contro
l’ influenza appartengono alla categoria degli adamantani, il cui capostipite è l’ amantadina, seguita poi dalla rimantadina nei primi anni 60.
Tali farmaci, il cui meccanismo d’ azione è dato dal blocco della proteina di
membrana M2 che funge da canale ionico, hanno il limite di funzionare solo nei confronti dell’ influenza di tipo A e sono gravati da consistenti effetti
collaterali di tipo neurologico. Inoltre a partire dai primi anni 2000
iniziarono a svilupparsi resistenze,
tanto che nella stagione 2005-06 il 91% dei virus di tipo H3N2 analizzati dai laboratori dell’ OMS risultarono portatori della mutazione S31N che conferisce resistenza nei confronti di questa categoria di farmaci e tutto questo ne comportò il
progressivo abbandono nella pratica clinica.
Zanamivir e oseltamivir
I primi studi relativi ad una nuova classe di farmaci
risalgono agli anni 80 e si basavano sulle nuove conoscenze sulle
caratteristiche ultrastrutturali del virus. Un ruolo chiave, sia nella
virulenza che nel riconoscimento da parte del sistema immunitario, è dato dalle
due proteine di membrana, l’ emoagglutinina (HA) e la neuraminidasi (NA). L’ HA
ha la funzione di permettere l’ aggancio del virus ai recettori presenti sulle
cellule a cui segue la penetrazione del virus e l’ avvio del ciclo infettivo
mentre la NA ha la funzione principale di permettere il rilascio dei nuovi
virioni dalle cellule, ma aiuta anche il virus a farsi strada attraverso le
barriere mucose. La NA agisce tagliando i residui di acido sialico, impedendo
che i virus rimangano intrappolati da tali residui presenti nella cellula e
nelle secrezioni dell’ epitelio respiratorio. Negli anni 80 si è riusciti a
determinare la struttura cristallina della NA, fornendo informazioni
fondamentali per arrivare alla creazione di composti in grado di
neutralizzarla. L’ obiettivo è stato fin da
subito quello di realizzare delle molecole con caratteristiche affini
all’ acido sialico che andassero a competere con il sito di legame e fossero così capaci di inibire l’ attività della proteina.
Sostituendo il carboidrato del Neu5Ac2en con un cicloesene si ottenne prima il GS 4071 ( composto 8) a cui venne aggiunto un gruppo lipofilico ma senza ancora riuscire ad avere una sufficiente biodiponibilità orale, per cui si realizzò un profarmaco, il GS 4104 ( composto 11) che viene convertito nella forma attiva dalle esterasi endogene. Era nato l’ oseltamivir che venne licenziato nel 1996 e commercializzato dalla Roche con il nome di Tamiflu. La FDA ne ha autorizzato l’ uso nel 1999. All’ inizio l’ accoglienza da parte del pubblico risultò essere tiepida, ma a metà degli anni 2000 ci fu un forte impulso alla produzione e all’ utilizzo di farmaci antivirali determinato dalla emergenza aviaria, con un numero crescente di casi umani fatali legati al virus H5N1 in diverse parti del mondo ed il timore che potesse preludere ad una pandemia dagli esiti catastrofici. Sotto la spinta di questi eventi, l’ OMS ha varato regole più stringenti di sorveglianza planetaria e ha invitato i paesi membri a predisporre dei piani di risposta alla minaccia che sembrava incombente. In questi piani un ruolo decisivo era dato proprio dall’ accumulo di quantità ingenti di farmaci da impiegare in caso di emergenza. Ma a guastare il cammino trionfante del Tamiflu sopraggiunsero le controversie relative alla presunta pericolosità del farmaco e successivamente i dubbi sulla sua reale efficacia.
Controversie sugli antivirali
Cominciamo dalle prime. I primi trial su adulti e bambini
non avevano rivelato la presenza di seri effetti collaterali. Gli unici effetti
di rilievo, notati soprattutto nei bambini, erano nausea e vomito che in alcuni
casi costringevano alla sospensione dell' assunzione. Nella sorveglianza
post-marketing invece vennero segnalati nei bambini al di sotto dei 16 anni
effetti avversi legati alla sfera psichica, come allucinazioni, confusione,
anomalie del comportamento, convulsioni ed encefaliti. Quello che però
risultava singolare è che questo tipo di segnalazioni provenivano in netta
prevalenza dal Giappone, in particolare negli anni dal 2004 al 2005. Ci fu la segnalazione 12 casi fatali, alcuni legati ad azioni suicide. Le stesse
autorità governative di quel paese erano allarmate e veniva richiesta di
sospendere la distribuzione del farmaco.
Di questo si occupò un’ apposita commissione dell’ FDA americana che, dopo aver analizzato la questione, arrivò alla
conclusione che nei casi riportati non
era dimostrabile una relazione certa con il farmaco, in quanto erano stati
assunti anche altri farmaci, c’ era la
compresenza di altre malattie e spesso i rapporti non erano molto accurati. Secondo l’ autorevole ente americano i casi erano più probabilmente da
attribuire ad un’ ondata di casi di encefaliti ed encefalopatie associate
all’influenza che era iniziata negli anni 90, prima dell’ entrata in commercio
del medicinale. In seguito, nel 2008 e nel 2012, sono state pubblicate due
importanti review di tutte le segnalazioni avverse di tipo neuropsichiatrico
che erano state raccolte dalla Roche.
Nel primo lavoro, di 3051
rapporti spontanei 2772 (90,9%) riguardava pazienti giapponesi, 190 ( 6,2%)
americani e 89 da altri paesi. Nello stesso periodo il farmaco era stato
somministrato a 48 milioni di persone. Nessuna differenza è stata rilevata nel
metabolismo e nella farmacocinetica del farmaco tra pazienti caucasici e
asiatici e la penetrazione nel sistema nervoso risultava bassa in entrambe le
popolazioni. I dati disponibili non erano a favore di una associazione tra
farmaco ed effetti avversi e nessun meccanismo mediante il quale il farmaco
potesse provocare tali reazioni fu dimostrato. Nella seconda review
viene fatto il punto sulle segnalazioni registrate tra il 2007 e il 2010, in tutto 1330 di cui il 42,5% dal Giappone, il 16,4% dagli Usa e il 42,5% da altri
paesi. Anche in questo caso non viene data dimostrazione di nessun rapporto di
causa-effetto tra farmaco e reazioni di tipo psichiatrico, che vengono
attribuite più verosimilmente a effetti di tipo encefalitico del virus
influenzale.
La seconda controversia riguarda i dubbi relativi all’
efficacia. Nel 2009 il governo inglese chiese alla Cochrane Collaboration, un
prestigioso istituto di revisione degli studi sull’ efficacia dei prodotti
farmaceutici, di rivedere le sue precedenti revisioni sugli antinfluenzali. Un
lavoro precedente del 2008 aveva mostrato un certo beneficio nel ridurre alcune
complicanze della malattia come la polmonite. Ma un semplice commento scritto online da un pediatra
giapponese, di nome Keiji Hayashi, scatenò un vero putiferio.
Il lavoro della Cochrane, scriveva il pediatra, era
formalmente corretto, ma si basava su un sommario di 10 lavori finanziati dalla
Roche e compilato da Laurent Kaiser. Di questi 10 lavori solo 2 erano stati
pubblicati in letteratura. Degli altri 8 esisteva solo un breve sommario sui
metodi di studio. Thomas Jefferson, il leader della Cochrane, capì subito di essersi sbagliato a fidarsi ciecamente del sommario di Kaiser e scrisse all’
autore richiedendogli tutti gli articoli nella loro versione completa. Kaiser
rispose di non avere più i fogli originali, per avere i quali bisognava rivolgersi
direttamente alla Roche. Qui sorse il problema. La Roche si disse disponibile a
trasmettere i lavori originali, ma solo in cambio di un accordo di non
divulgazione degli stessi. Jefferson si oppose giustamente a questa richiesta,
in nome di un’ esigenza di trasparenza. La Roche, come ripicca, acconsentì a consegnare i lavori, ma non alla Cochrane, bensì ad altri gruppi di
studiosi di suo gradimento.
A quel punto la Cochrane pubblica la sua review escludendo
del tutto i lavori contestati e lasciando in sospeso il giudizio, spiegando in maniera apertamente polemica le ragioni.
Alla fine, dopo un tira e molla durato 4 anni, la Roche
consegna i manoscritti originali nella loro completezza.
Nel 2014 viene pubblicata la meta-analisi della Cochrane in
cui viene messa in evidenza un’ efficacia del farmaco nel ridurre la durata
della malattia, ma solo di 1 giorno (16.8 ore; 95% CI: 8.4 - 24.1; P<.001).
Simili risultati sono riportati anche per quanto riguarda i bambini sani, con
una riduzione della durata di 29 ore (95% CI: 12 - 47 ore, P =.001).
Non viene evidenziata nessuna riduzione nel rischio di ospedalizzazione, mentre
i dati sono insufficienti sul rischio morte. Si dimostrano invece effetti
collaterali quali nausea e vomito.
Va dato atto alla Cochrane di aver compiuto una giusta
battaglia per affermare principi sacrosanti di trasparenza e di completezza
delle informazioni a cui devono attenersi le ditte che producono farmaci di
qualsiasi tipologia, in particolare se destinati ad un mercato mondiale di
consumatori.
Ma la Cochrane sbaglia a considerare come unica fonte
autorevole di giudizio i lavori randomizzati in doppio-cieco che sono il gold
standard per quanto riguarda la ricerca scientifica, ma non sempre possono
essere presi come unico metro per valutare l’ efficacia di un trattamento.
Certamente sono fondamentali per farmaci di largo impiego in patologie
croniche-degenerative che interessano una parte rilevante della popolazione, ma
non possono rappresentare il vangelo per situazioni di nicchia in cui il basso
numero di casi e ragioni di tipo etico non consentono di fare questo tipo di
studi. E’ questo il caso delle gravi complicazioni che avvengono in seguito a malattie sostenute da ceppi
influenzali particolarmente virulenti, come nei casi di influenza aviaria o di
influenza legata al virus H1N1 pandemico. Esiste ormai una larga messe di studi
sul campo ( osserrvazionali e retrospettivi) che dimostrano che dare o meno il
farmaco può fare sostanzialmente la differenza in termini di vite umane
salvate. Un importante studio pubblicato nel 2010 ha analizzato i dati
provenienti dalle istituzioni governative sanitarie di 12 paesi e dalle serie
di casi pubblicati relativi a pazienti affetti da influenza H5N1, con un totale
di 308 casi. Il tasso di sopravvivenza complessivo è stato del 43,5%. Ma se
consideriamo i pazienti in base all’ assunzione o meno del Tamiflu, è risultato
che il tasso di sopravvivenza è stato del 60% e del 24% rispettivamente, con
una riduzione della mortalità del 49% per i trattati.
Pur con i limiti e i possibili bias di questo tipo di studio, il risultato
appare essere una dimostrazione ragionevole dell’ efficacia del trattamento .
Anche nel corso della pandemia del 2009, moltissimi studi
riportavano quasi unanimemente un sostanziale beneficio del trattamento nel
ridurre la mortalità dei casi gravi di polmonite e compromissione dei parametri
vitali, soprattutto se iniziato entro 48 ore dall’ inizio dei sintomi.
In uno studio di revisione, avente per oggetto 29234
pazienti di 78 studi, gli investigatori hanno riscontrato una riduzione
significativa del rischio di mortalità pari al 19% ( odd ratio corretta: 0.81;
95% CI: 0.70 - 0.93; P = .0024).
L’ ultimo capitolo della controversia è uno studio recente pubblicato sulla rivista Jama, che riprende il discorso analizzando le cartelle
cliniche di più di 4000 pazienti e riscontrando una riduzione delle infezioni
delle basse vie respiratorie del 44% e del 63% del rischio di ammissione in
ospedale. Si è notata anche una riduzione nell’ assunzione di antibiotici.
A questo studio ha replicato prontamente Peter Doshi, uno
degli elementi di punta della Cochrane, che denuncia lo zampino della Roche, attraverso una fondazione chiamata MUGAS e avanza dubbi
sulla reale consistenza e attendibilità dei dati presentati.
La disputa sembra quindi lungi da una conclusione e le due
fazioni probabilmente si daranno battaglia ancora per un lungo periodo.
Ma ci sono alcuni punti fermi che vorrei sottolineare.
Nessuno mette in dubbio l’ efficacia del farmaco, che in tutti gli studi si è dimostrato in
grado di ridurre in maniera significativa la durata della malattia. Del resto
il fenomeno delle resistenze, che ha interessato la quasi totalità dei virus
H1N1 stagionali a partire dal 2008 e qua e là è emersa anche nei confronti dei
virus aviari e del virus H1N1 pandemico, sta a dimostrare che il virus “teme”
il farmaco e mette in atto strategie di evitamento.
Questo outcome può essere di scarsa rilevanza se riferito
ad una popolazione di persone che non presenta particolari fattori di rischio,
nei cui riguardi va sconsigliata l’ assunzione, anche per la presenza di
effetti collaterali e per il rischio di favorire il fenomeno della resistenza.
Gli effetti sulle complicazioni più severe, anche se non
dimostrati in maniera univoca dagli studi di tipo randomizzato, ma
difficilmente potranno esserlo per la scarsa incidenza di queste complicazioni
in una popolazione costituita da soggetti sani, hanno ricevuto numerose conferme in una miriade di studi
osservazionali, dove il Tamiflu è stato in grado di fare la differenza tra la vita e la
morte, con costi contenuti in termini sia economici che di reazioni indesiderate.
Rimane pertanto condivisibile la raccomandazione degli
organismi sanitari mondiali di associare alla vaccinazione la pratica
di proteggere le persone più vulnerabili con l’ assunzione del farmaco entro il
più breve tempo possibile.
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