domenica 15 febbraio 2015

Farmaci per combattere l' influenza: ruolo e controversie relative al Tamiflu










Le due principali categorie di agenti patogeni sono i batteri e i virus. Nei confronti dei primi possediamo da ormai 80 anni armi potenti, gli antibiotici, che hanno consentito di vincere importanti battaglie nei confronti di germi che in passato  rappresentavano un’ importante causa di mortalità. Grazie al potenziamento dei vecchi preparati e alla produzione di nuove classi di molecole, riusciamo a curare ancora oggi molte patologie potenzialmente gravi, anche se desta preoccupazione il fenomeno delle resistenze e la prospettiva che di qui a 10 anni ci possa essere una sostanziale perdita di efficacia di questi fondamentali strumenti di contrasto. Per quanto riguarda i virus, è molto più recente la storia dello sviluppo di molecole ad azione antivirale. Per lunghi periodi ci si è basati esclusivamente sull’ azione preventiva dei vaccini, che pure hanno consentito di raggiungere traguardi fondamentali come l’ eliminazione del vaiolo e la forte limitazione di altre malattie pericolose come la poliomielite e  il morbillo. Altre malattie virali hanno invece rappresentato una sfida negli ultimi decenni, poiché per lungo tempo non si è stati in grado di sviluppare contromisure efficaci, come nel caso del temibile virus HIV, caratterizzato da una grande mutevolezza, tale da  renderlo imprendibile dalla memoria immunologica indotta dal vaccino. Da  questo presupposto derivò un forte impulso  allo sviluppo di farmaci, fino ad arrivare all' importante traguardo della messa a punto degli antiretrovirali che, pur non eliminando il virus, riducono fortemente la sua proliferazione e consentono la ricostruzione delle difese immunitarie del soggetto colpito, garantendone  prospettive di vita decisamente migliori.


L’ influenza rappresenta un’ importante patologia su cui si è concentrata la ricerca terapeutica in questi ultimi anni, man mano che si è preso consapevolezza della pericolosità del virus e dell’ impatto in termini di morbilità e di mortalità, anche senza dover richiamare alla memoria eventi lontani come le pandemie del 20° secolo. Tradizionalmente si ricorre alla vaccinazione per cercare di limitare gli effetti della malattia. Il primo vaccino è stato sviluppato nel 1938, ad opera di Jonas Salk ( che poi da quella ricerca prese spunto per poi arrivare a sviluppare il vaccino antipolio che porta il suo nome) e Thomas Francis e venne usato per proteggere i soldati americani durante la seconda guerra mondiale. I primi vaccini non erano purificati e sviluppavano frequenti effetti collaterali e solo dagli anni 70 si è arrivati alla produzione di vaccini più moderni. I vaccini influenzali non sono stati in grado di emulare i successi raggiunti con altre malattie a causa dei limiti intrinseci in termini di durata limitata della protezione, un’ efficacia che arriva al massimo al 70-80% e una ridotta accettazione da parte della popolazione, tutti fattori che non consentono attualmente di creare un’ effetto di “immunità di gregge”, che è quell’ ombrello protettivo che copre anche chi non si vaccina, grazie ad un numero sufficientemente ampio di vaccinati.

 A partire dagli anni 50 ha avuto inizio la ricerca di composti che fossero in grado di neutralizzare i virus influenzali. Storicamente i primi farmaci a trovare impiego per la lotta contro l’ influenza appartengono alla categoria degli adamantani, il cui capostipite è l’ amantadina, seguita poi dalla rimantadina nei primi anni 60. Tali farmaci, il cui meccanismo d’ azione è dato dal blocco  della proteina di membrana M2 che funge da canale ionico, hanno il limite di funzionare solo nei confronti dell’ influenza di tipo A e  sono gravati da consistenti effetti collaterali di tipo neurologico. Inoltre a partire dai primi anni 2000 iniziarono a svilupparsi  resistenze, tanto che nella stagione 2005-06 il 91% dei virus di tipo H3N2 analizzati dai laboratori dell’ OMS risultarono portatori della mutazione S31N che conferisce resistenza nei confronti di questa categoria di farmaci e tutto questo ne comportò il progressivo abbandono nella pratica clinica.

Zanamivir e oseltamivir
 

I primi studi relativi ad una nuova classe di farmaci risalgono agli anni 80 e si basavano sulle nuove conoscenze sulle caratteristiche ultrastrutturali del virus. Un ruolo chiave, sia nella virulenza che nel riconoscimento da parte del sistema immunitario, è dato dalle due proteine di membrana, l’ emoagglutinina (HA) e la neuraminidasi (NA). L’ HA ha la funzione di permettere l’ aggancio del virus ai recettori presenti sulle cellule a cui segue la penetrazione del virus e l’ avvio del ciclo infettivo mentre la NA ha la funzione principale di permettere il rilascio dei nuovi virioni dalle cellule, ma aiuta anche il virus a farsi strada attraverso le barriere mucose. La NA agisce tagliando i residui di acido sialico, impedendo che i virus rimangano intrappolati da tali residui presenti nella cellula e nelle secrezioni dell’ epitelio respiratorio. Negli anni 80 si è riusciti a determinare la struttura cristallina della NA, fornendo informazioni fondamentali per arrivare alla creazione di composti in grado di neutralizzarla. L’ obiettivo è stato fin da  subito quello di realizzare delle molecole con caratteristiche affini all’ acido sialico che andassero a competere con il sito di legame e fossero così capaci di inibire l’ attività della proteina.
I primi furono il 2-deoxy-α-Neu5Ac (composto 3) e Neu5Ac2en     ( composto 2a),  che dimostrarono di avere un’ attività discreta anche in vivo. Successivamente, mediante gli studi cristallografici a raggi X si riuscì ad individuare dei residui nei siti di legame che erano comuni sia per i virus di tipo A che di tipo B, aprendo la prospettiva di poter  agire contro entrambi i virus. Si arrivò così alla individuazione del 4-amino-4-deoxy-Neu5Ac2en ( composto 4), poi potenziato in 4-deoxy-4-guanidino-Neu5Ac2en  (composto 5),che si dimostrò un potente inibitore dei virus di tipo A e B sia in vitro che in vivo e venne commercializzato nel 1990  dalla Glaxo con il nome di zanamivir (Relenza) e ricevette l’ approvazione della FDA nel 1999. Data la sua bassa biodisponibilità orale venne presentata come formulazione inalatoria. La scoperta della zanamivir pose la base per la ricerca di altri farmaci con simile attività che potessero essere assunti per bocca.
Sostituendo il carboidrato del Neu5Ac2en con un cicloesene si ottenne prima il GS 4071 ( composto 8) a cui venne aggiunto un gruppo lipofilico ma senza ancora riuscire ad avere  una sufficiente biodiponibilità orale, per cui si realizzò un profarmaco, il GS 4104 ( composto 11)  che viene convertito nella forma attiva dalle esterasi endogene. Era nato l’ oseltamivir che venne licenziato nel 1996 e  commercializzato dalla Roche con il nome di Tamiflu. La FDA ne ha autorizzato l’ uso nel 1999. All’ inizio l’ accoglienza da parte del pubblico risultò essere tiepida, ma a  metà degli anni 2000 ci fu un forte impulso alla produzione e all’ utilizzo di farmaci antivirali determinato dalla emergenza aviaria, con un numero crescente di casi umani fatali legati al virus H5N1 in diverse parti del mondo ed il timore che potesse preludere ad una pandemia dagli esiti catastrofici. Sotto la spinta di questi eventi, l’ OMS ha varato regole più stringenti di sorveglianza planetaria e ha invitato i paesi membri a predisporre dei piani di risposta alla minaccia che sembrava incombente. In questi piani un ruolo decisivo era dato proprio dall’ accumulo di quantità ingenti di farmaci da impiegare in caso di emergenza. Ma a guastare il cammino trionfante del Tamiflu  sopraggiunsero le controversie relative alla presunta pericolosità del farmaco e successivamente i dubbi sulla sua reale efficacia.

Controversie sugli antivirali 

Cominciamo dalle prime. I primi trial su adulti e bambini non avevano rivelato la presenza di seri effetti collaterali. Gli unici effetti di rilievo, notati soprattutto nei bambini, erano nausea e vomito che in alcuni casi costringevano alla sospensione dell' assunzione. Nella sorveglianza post-marketing invece vennero segnalati nei bambini al di sotto dei 16 anni effetti avversi legati alla sfera psichica, come allucinazioni, confusione, anomalie del comportamento, convulsioni ed encefaliti. Quello che però risultava singolare è che questo tipo di segnalazioni provenivano in netta prevalenza dal Giappone, in particolare negli anni dal 2004 al 2005. Ci fu la segnalazione 12 casi fatali, alcuni legati ad azioni suicide. Le stesse autorità governative di quel paese erano allarmate e veniva richiesta di sospendere la distribuzione del farmaco. Di questo si occupò un’ apposita commissione dell’ FDA americana che, dopo aver analizzato la questione, arrivò alla conclusione  che nei casi riportati non era dimostrabile una relazione certa con il farmaco, in quanto erano stati assunti anche  altri farmaci, c’ era la compresenza di altre malattie e spesso i rapporti non erano molto accurati. Secondo l’ autorevole ente americano i casi erano più probabilmente da attribuire ad un’ ondata di casi di encefaliti ed encefalopatie associate all’influenza che era iniziata negli anni 90, prima dell’ entrata in commercio del medicinale. In seguito, nel 2008 e nel 2012, sono state pubblicate due importanti review di tutte le segnalazioni avverse di tipo neuropsichiatrico che erano state raccolte  dalla Roche. Nel primo lavoro, di 3051 rapporti spontanei 2772 (90,9%) riguardava pazienti giapponesi, 190 ( 6,2%) americani e 89 da altri paesi. Nello stesso periodo il farmaco era stato somministrato a 48 milioni di persone. Nessuna differenza è stata rilevata nel metabolismo e nella farmacocinetica del farmaco tra pazienti caucasici e asiatici e la penetrazione nel sistema nervoso risultava bassa in entrambe le popolazioni. I dati disponibili non erano a favore di una associazione tra farmaco ed effetti avversi e nessun meccanismo mediante il quale il farmaco potesse provocare tali reazioni fu dimostrato. Nella seconda review  viene fatto il punto sulle segnalazioni registrate tra il 2007 e il 2010, in tutto 1330  di cui il 42,5% dal Giappone, il 16,4% dagli Usa e il 42,5% da altri paesi. Anche in questo caso non viene data dimostrazione di nessun rapporto di causa-effetto tra farmaco e reazioni di tipo psichiatrico, che vengono attribuite più verosimilmente a effetti di tipo encefalitico del virus influenzale.


La seconda controversia riguarda i dubbi relativi all’ efficacia. Nel 2009 il governo inglese chiese alla Cochrane Collaboration, un prestigioso istituto di revisione degli studi sull’ efficacia dei prodotti farmaceutici, di rivedere le sue precedenti revisioni sugli antinfluenzali. Un lavoro precedente del 2008 aveva mostrato un certo beneficio nel ridurre alcune complicanze della malattia come la polmonite. Ma un semplice commento scritto online da un pediatra giapponese, di nome Keiji Hayashi,  scatenò un vero putiferio.

Il lavoro della Cochrane, scriveva il pediatra, era formalmente corretto, ma si basava su un sommario di 10 lavori finanziati dalla Roche e compilato da Laurent Kaiser. Di questi 10 lavori solo 2 erano stati pubblicati in letteratura. Degli altri 8 esisteva solo un breve sommario sui metodi di studio. Thomas Jefferson, il leader della Cochrane, capì subito di essersi sbagliato a fidarsi ciecamente del sommario di Kaiser e scrisse all’ autore richiedendogli tutti gli articoli nella loro versione completa. Kaiser rispose di non avere più i fogli originali, per avere i quali bisognava rivolgersi direttamente alla Roche. Qui sorse il problema. La Roche si disse disponibile a trasmettere i lavori originali, ma solo in cambio di un accordo di non divulgazione degli stessi. Jefferson si oppose giustamente a questa richiesta, in nome di un’ esigenza di trasparenza. La Roche, come ripicca, acconsentì a consegnare i lavori, ma non alla Cochrane, bensì ad altri gruppi di studiosi di suo gradimento.

A quel punto la Cochrane pubblica la sua review escludendo del tutto i lavori contestati e lasciando in sospeso il giudizio, spiegando in maniera apertamente polemica  le ragioni.

Alla fine, dopo un tira e molla durato 4 anni, la Roche consegna i manoscritti originali nella loro completezza.

Nel 2014 viene pubblicata la meta-analisi della Cochrane in cui viene messa in evidenza un’ efficacia del farmaco nel ridurre la durata della malattia, ma solo di 1 giorno (16.8 ore; 95% CI: 8.4 - 24.1; P<.001). Simili risultati sono riportati anche per quanto riguarda i bambini sani, con una riduzione della durata di 29 ore (95% CI: 12 - 47 ore, P =.001). Non viene evidenziata nessuna riduzione nel rischio di ospedalizzazione, mentre i dati sono insufficienti sul rischio morte. Si dimostrano invece effetti collaterali quali nausea e vomito.

Va dato atto alla Cochrane di aver compiuto una giusta battaglia per affermare principi sacrosanti di trasparenza e di completezza delle informazioni a cui devono attenersi le ditte che producono farmaci di qualsiasi tipologia, in particolare se destinati ad un mercato mondiale di consumatori.

Ma la Cochrane sbaglia a considerare come unica fonte autorevole di giudizio i lavori randomizzati in doppio-cieco che sono il gold standard per quanto riguarda la ricerca scientifica, ma non sempre possono essere presi come unico metro per valutare l’ efficacia di un trattamento. Certamente sono fondamentali per farmaci di largo impiego in patologie croniche-degenerative che interessano una parte rilevante della popolazione, ma non possono rappresentare il vangelo per situazioni di nicchia in cui il basso numero di casi e ragioni di tipo etico non consentono di fare questo tipo di studi. E’ questo il caso delle gravi complicazioni che avvengono in seguito a malattie sostenute da ceppi influenzali particolarmente virulenti, come nei casi di influenza aviaria o di influenza legata al virus H1N1 pandemico. Esiste ormai una larga messe di studi sul campo ( osserrvazionali e retrospettivi) che dimostrano che dare o meno il farmaco può fare sostanzialmente la differenza in termini di vite umane salvate. Un importante studio pubblicato nel 2010 ha analizzato i dati provenienti dalle istituzioni governative sanitarie di 12 paesi e dalle serie di casi pubblicati relativi a pazienti affetti da influenza H5N1, con un totale di 308 casi. Il tasso di sopravvivenza complessivo è stato del 43,5%. Ma se consideriamo i pazienti in base all’ assunzione o meno del Tamiflu, è risultato che il tasso di sopravvivenza è stato del 60% e del 24% rispettivamente, con una riduzione della mortalità del 49% per i trattati. Pur con i limiti e i possibili bias di questo tipo di studio, il risultato appare essere una dimostrazione ragionevole dell’ efficacia  del trattamento .

Anche nel corso della pandemia del 2009, moltissimi studi riportavano quasi unanimemente un sostanziale beneficio del trattamento nel ridurre la mortalità dei casi gravi di polmonite e compromissione dei parametri vitali, soprattutto se iniziato entro 48 ore dall’ inizio dei sintomi.

In uno studio di revisione, avente per oggetto 29234 pazienti di 78 studi, gli investigatori hanno riscontrato una riduzione significativa del rischio di mortalità pari al 19% ( odd ratio corretta: 0.81; 95% CI: 0.70 - 0.93; P = .0024). 



L’ ultimo capitolo della controversia è uno studio recente pubblicato sulla rivista Jama, che riprende il discorso analizzando le cartelle cliniche di più di 4000 pazienti e riscontrando una riduzione delle infezioni delle basse vie respiratorie del 44% e del 63% del rischio di ammissione in ospedale. Si è notata anche una riduzione nell’ assunzione di antibiotici. 

A questo studio ha replicato prontamente Peter Doshi, uno degli elementi di punta della Cochrane, che denuncia lo zampino della Roche, attraverso una fondazione chiamata MUGAS e avanza dubbi sulla reale consistenza e attendibilità dei dati presentati.



La disputa sembra quindi lungi da una conclusione e le due fazioni probabilmente si daranno battaglia ancora per un lungo periodo.



Ma ci sono alcuni punti fermi che vorrei sottolineare.

Nessuno mette in dubbio l’ efficacia del farmaco, che in tutti gli studi si è dimostrato in grado di ridurre in maniera significativa la durata della malattia. Del resto il fenomeno delle resistenze, che ha interessato la quasi totalità dei virus H1N1 stagionali a partire dal 2008 e qua e là è emersa anche nei confronti dei virus aviari e del virus H1N1 pandemico, sta a dimostrare che il virus “teme” il farmaco e mette in atto strategie di evitamento.

Questo outcome può essere di scarsa rilevanza se riferito ad una popolazione di persone che non presenta particolari fattori di rischio, nei cui riguardi va sconsigliata l’ assunzione, anche per la presenza di effetti collaterali e per il rischio di favorire il fenomeno della  resistenza.

Gli effetti sulle complicazioni più severe, anche se non dimostrati in maniera univoca dagli studi di tipo randomizzato, ma difficilmente potranno esserlo per la scarsa incidenza di queste complicazioni in una popolazione costituita da soggetti sani,  hanno ricevuto numerose conferme in una miriade di studi osservazionali, dove il Tamiflu è stato in grado di fare la differenza tra la vita e la morte, con costi contenuti in termini sia economici che di reazioni indesiderate.

Rimane pertanto condivisibile la raccomandazione degli organismi sanitari mondiali di associare alla vaccinazione la pratica  di proteggere le persone più vulnerabili con l’ assunzione del farmaco entro il più breve tempo possibile.






















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