domenica 30 novembre 2014

Enterovirus D68: uno spettro si aggira per gli Stati Uniti







Uno spettro che dovrebbe spaventare anche l' Europa.  




Qualche brivido deve essere corso lungo la schiena dei medici che si sono ritrovati al convegno annuale della Child Neurology Society, dove hanno discusso dei numerosi casi, si parlava di più di 100, di paralisi flaccida acuta (AFP) che hanno colpito i bambini in diversi stati degli USA nell’arco di poche settimane. Il pensiero è andato certamente agli anni in cui un' altra  malattia imperversava per il mondo occidentale, lasciandosi alle spalle un numero ingente di casi  con caratteristiche analoghe: parliamo della poliomielite. Facciamo un passo indietro e ripercorriamo in breve la  sua storia.


 Il virus era presente probabilmente già in epoche remote ma, prima del XX secolo, le infezioni da polio interessavano maggiormente i bambini da sei mesi a quattro anni senza gravi conseguenze. Le condizioni igienico-sanitarie scarse dell'epoca portavano ad una costante esposizione al virus, fatto che permetteva lo sviluppo di un'immunità naturale all'interno della popolazione. Nei paesi economicamente avanzati degli inizi del XX secolo furono apportati miglioramenti nei servizi igienico-sanitari, compreso lo smaltimento delle acque reflue e la disponibilità di acqua potabile per tutti. Questi cambiamenti ridussero l'esposizione al virus nella prima infanzia e, di conseguenza, calò la diffusione dell'immunità alla malattia e  aumentarono drasticamente il numero di bambini più grandi e adulti a maggior  rischio di complicazioni. La più tipica e più temuta consisteva in una paralisi acuta di uno o più arti, con un coinvolgimento a volte dei nervi cranici, dovuto ad una distruzione della materia grigia del midollo spinale e/o bulbare. Le epidemie si verificavano in prevalenza nei mesi estivo-autunali e negli anni 50 arrivavano a provocare più di 20000 casi negli USA e 8000 in Italia.

Della recente  epidemia indiziato principale è un virus strettamente imparentato  al virus della poliomielite, denominato Enterovirus-D68 (EV-D68).

A febbraio di quest’anno in California si sono verificati 5 casi di bambini con AFP, altri si erano verificati nei mesi precedenti. Si trattava di bambini che, a breve distanza dall’esordio di una forma infettiva non particolarmente severa, venivano colpiti da paralisi di uno o più arti, con danni del midollo spinale simili a quelli della poliomielite e con esiti prolungati. In due di questi casi è stato isolato l’ EV-D68.

Passano alcuni mesi e ad agosto, a  Kansas City,  viene descritta un'insolita epidemia di  infezioni gravi respiratorie che colpiscono in modo particolare i bambini. Su ca 300 bambini affetti, il 10-15% presentava complicazioni, come esacerbazioni di quadri di asma o manifestazioni respiratorie talmente importanti da richiedere un trattamento intensivo. Situazioni analoghe vengono riportate in Colorado, Ohio e Illinois. I medici si dicono sconcertati dalla gravità di un’ epidemia definita senza precedenti.

Il virus responsabile risulta essere proprio l’EV-D68.



L’ enterovirus-D68 appartiene alla famiglia dei Picornavirus, genere enterovirus, di cui altri rappresentanti sono i rinovirus, gli ecovirus, coxsackievirus, responsabili di numerose infezioni a carico prevalentemente delle vie respiratorie, nella maggioranza dei casi lievi o asintomatiche, ma a volte anche di gravi forme di meningite ed encefalite.
 L’EV-D68 è conosciuto fin dal 1962, ma fino ad anni recenti si era fatto notare poco. Solo a partire dal 2009 si sono registrate epidemie di malattie respiratorie nel Nord-America, Europa e Asia. L’ analisi filogenetica ha mostrato che emergono costantemente diverse varianti (cladi) del virus, che hanno la tendenza a diffondere rapidamente a livello mondiale (1).

Intanto, dopo i primi casi registrati ad agosto, l’ epidemia si allarga a diversi altri stati. La malattia causata da questo virus non rientra tra quelle soggette a notifica obbligatoria, per cui la CDC di Atlanta, il massimo organo di sorveglianza sanitaria, fatica all’inizio ad avere il polso della situazione e nei primi comunicati vengono confermati solo 30 casi in Missouri e Illinois e, data la mancata presenza di segnali di un aumento degli accessi negli ospedali per sindromi acute, emette comunicati rassicuranti. 

Successivamente l’allarme si propaga, il virus viene attivamente ricercato e  arrivano numerose conferme di infezione. A fine ottobre la CDC comunica di essere a conoscenza di 1101 casi confermati, provenienti da praticamente tutti gli stati (47) e dal distretto della Colombia. Dei ca 2000 casi indagati, il 40% risulta essere positivo, mentre 1/3 è positivo per rinovirus o altri enterovirus. A preoccupare sono i primi decessi che vengono segnalati (8 a quel momento) e l’elevata frequenza del ricorso a terapie intensive.

Nello stesso periodo, in Colorado, si segnalano 9 casi di bambini con paralisi degli arti dopo un episodio febbrile acuto. Si tratta di pazienti con meno di 21 anni, con insorgenza improvvisa di debolezza degli arti e  immagini di lesioni confinate alla sostanza grigia del midollo spinale. In 6 di 8 pazienti testati sono stati isolati rinovirus/enterovirus nel rinofaringe, ma non nel liquor, in 4 tipizzati come EV-D68.  Casi analoghi si sono verificati in altri 31 stati. Nell’ultimo bollettino ne risultano ufficialmente 88. Purtroppo si contano con le dita di una mano i casi che hanno avuto un decorso favorevole.


Nell’ultimo periodo  l’epidemia di forme respiratorie ha rallentato  e sembra vicino alla fine. Il bollettino del 20-11 riporta 1121 casi di infezioni confermate da virus EV-D68, con 12 decessi, tra cui una bimba morta nel sonno.

Diversi casi (214) si sono manifestati anche in Canada, negli stati della Colombia Britannica e dell’ Alberta dove sono stati documentati almeno 6 casi di paralisi flaccida  e un giovane uomo è deceduto.

Ma i casi non si limitano al nuovo mondo. In Francia è stato recentemente riportato un caso di paralisi flaccida in un bambino di 4 anni in precedenza sano che, dopo sintomi di tipo meningeo, ha presentato un quadro di paralisi dei 4 arti e disfagia. Le immagini di risonanza hanno mostrato lesioni delle radici ventrali dei nervi della coda equina. L’EV–D68 è stato isolato dal rinofaringe, dai bronchi e dalle feci.



Gli esperti della CDC esprimono cautela e affermano che  l’attribuzione della malattia alla nuova entità rimane incerta, data la non univoca identificazione dell’ agente causale e la non dimostrata correlazione tra la presenza del virus e il quadro neurologico. In effetti ci sono molte altre possibili cause di AFP, che può essere dovuta sia a malattie di tipo infettivo sia di tipo degenerativo o autoimmune (Guillain-Barré, mielite trasversa, la poliradiculoneurite, etc).

Ma ci sono anche importanti ragioni che  fanno ritenere questa non solo l’ipotesi principale, ma anche l’unica plausibile. 
 Vediamo i motivi che portano a sostenere questa tesi:


-la concomitanza con l’ epidemia da EV-D68 che ha provocato diverse centinaia di casi severi nello stesso periodo

- la tendenza dei casi a manifestarsi non solo in maniera isolata ma anche raggruppati dal punto di vista spazio-temporale (cluster) e preceduti da sintomi quali febbre e sintomi respiratori, il che avalla l’ipotesi di una forma infettiva

 -la positività delle ricerche virali in diversi casi anche se non in tutti. Si obietta che il virus non sia stato isolato dal liquor ma solo da altre sedi. In  passato sono documentati due episodi di AFP in cui l’ enterovirus è stato isolato dal liquor e inoltre anche il virus della polio solo raramente è stato isolato nel liquor (5,6% dei casi ha positività della ricerca nel CSF, secondo dati dell' OMS)
-la dimensione dell’epidemia, che non ha precedenti nella storia degli USA. In precedenza solo l’EV-71, un altro eneterovirus diffuso soprattutto in Asia, aveva causato focolai di severi quadri neurologici, compresi 5  di tipo paralitico, a Denver nel Colorado (2), nel 2003 e nel 2005, con 8 casi in ciascun anno. Solo in 5 casi è stata documentata la presenza del virus nel liquor.
Nel 1987 si era verificata un’ altra epidemia con 45 casi di EV-71, 27 dei quali con manifestazioni neurologiche, in Alaska Pennsylvania e New Jersey.

-la fine dell’epidemia di forme respiratorie da EV-D68 ha coinciso con la fine delle forme di AFP



Ora che l’epidemia sta volgendo al termine possiamo tirare un sospiro di sollievo e allontanare i fantasmi di una nuova polio che torni a minacciare l’ umanità con il suo pesante fardello. Può darsi che questa epidemia non si debba più ripetere o si ripresenti solo a distanza di parecchi anni, ma è un evento da non sottovalutare e da tenere monitorato attentamente nelle prossime stagioni, non solo negli Stati Uniti ma anche negli stati europei, dove invece è giunta scarsissima eco di questi avvenimenti. Proprio in questi giorni l’ ECDC ha  invitato i paesi europei ad essere vigilanti riguardo la possibile presenza anche in Europa di malattie legate all’ EV-D68. 









1)Worldwide emergence of multiple clades of enterovirus 68 

J Gen Virol. Sep 2012; 93(Pt 9): 1952–1958. doi:  10.1099/vir.0.043935-0






 2) Outbreak of Neurologic Enterovirus Type 71 Disease: A Diagnostic ChallengeClin Infect Dis. (2007) 45 (8): 950-957. doi: 10.1086/521895






domenica 23 novembre 2014

H5N8, H7N9, H5N1: diverse facce di un singolo problema






Le cronache di questi giorni hanno riportato in primo piano le notizie relative a casi di influenza aviaria, dall’ epidemia di H5N8 negli allevamenti avicoli olandesi e inglesi, ai nuovi casi umani di  influenza H7n9 in Cina fino al mai domo H5N1, responsabile di 2 morti in Egitto. E' ovvio che la sovrapposizione di questi episodi è puramente casuale, ma viene comunque da interrogarsi su cosa stia dietro queste emergenze che si rinnovano a ritmi incalzanti.

 I focolai europei di influenza H5N8 fanno seguito a quelli verificatisi in Germania.  Il virus H5N8 è stato isolato per la prima volta in Irlanda nel 1983 e, dopo sporadiche apparizioni negli Stati Uniti e in Asia, si è ripresentato a partire del 2010 sotto una nuova veste, grazie al riassortimento con altri virus di tipo H5. A gennaio di quest’ anno, ha determinato un’ estesa epidemia negli allevamenti di pollame della Corea del Sud ed è stato segnalato in Giappone e in Cina. Il ceppo risulta essere il medesimo che ha causato i focolai in Europa. Al momento non sembrano esserci rischi per la popolazione,  tuttavia è inquietante la rapidità con cui ceppi di recente insorgenza si siano diffusi dall’ Asia all’ Europa. Una parte della responsabilità è legata ai traffici internazionali di volatili, ma il ruolo sicuramente maggiore è giocato dalle rotte migratorie degli uccelli acquatici, che sono in grado di coprire grandi distanze e di trasmettere l’ infezione agli animali domestici. 


In Cina si segnala una ripresa dei casi di influenza H7N9, con tre nuovi casi riportati dall' ultimo bollettino dell’ OMS, giunta alla sua terza stagione e che ha fatto più di 450 casi  e 175 vittime. Vedremo nelle prossime settimane/mesi se si ripeteranno gli scenari delle precedenti stagioni, comunque sarà un tema che merita un approfondimento a parte.


Da ultimo assistiamo ad un ritorno dell’ influenza H5N1 nel sud dell’ Egitto, terra che è stata spesso teatro di focolai epidemici legati a questo virus, anche se la letalità nei casi registrati in questo paese è risultata storicamente inferiore rispetto a quella osservata nei paesi asiatici.

E’ interessante notare come tutte queste notizie arrivino ovattate nelle cronache di stampa e non tendano a deflagrare come  avveniva 8-9 anni fa, quando l’ allora rampante virus H5N1 occupava le prime pagine dei giornali e teneva con il fiato sospeso l’ opinione pubblica mondiale, causando anche seri danni ai settori economici correlati. I primi 18 casi umani, di cui 6 fatali, risalgono al 1997. Il momento più critico è stato  toccato nel 2005,  allorché vengono documentati i primi casi di trasmissione interfamigliare, con l’  che si allarga a macchia d' olio.

Nel 2006 la situazione si aggrava: il virus viene isolato per la prima volta in   un allevamento di polli della Nigeria e uccelli infetti vengono segnalati da molti paesi tra cui Italia, Germania e  Francia. Spaventa l’ aggressività del virus, in grado di uccidere il 50% delle persone colpite,  la capacità di trasmettersi da uomo a uomo e i timori di essere alle porte di una pandemia devastante come quella del 1918, tanto da spingere l’ OMS a diramare misure urgenti di controllo e di preparazione che dovevano essere recepite da tutti gli stati membri. Sono passati diversi anni da allora, una pandemia è arrivata, ma causata da un virus completamente diverso e senza i temuti effetti drammatici e questo ha fatto si che i riflettori si spegnessero a poco a poco su tutta la problematica.

In realtà, anche se non c’ è motivo per vivere in uno stato di terrore permanente, è necessario restare vigili nei confronti di queste continue evoluzioni perché,  se anche sembrano limitate nei loro effetti immediati, possono creare i presupposti per fenomeni più pericolosi. Vediamo di capire le ragioni di questa cautela.






Gli uccelli migratori rappresentano storicamente il serbatoio principale del virus dell’ influenza di tipo A, di cui si conoscono varie ramificazioni, a seconda degli antigeni di superficie Emagglutinina (HA) e neuraminidasi (NA), proteine di superficie con un’ importante funzione nel ciclo vitale del virus.  Si conoscono 17 varianti di HA e 10 di NA con varie possibili combinazioni ( se ne contano ca 200) e tutte sono veicolate dagli uccelli, ad eccezione dell’ H17N10 che sembra esclusiva dei pipistrelli. Dagli uccelli si diffondono a molte altre specie tra cui l’ uomo, in cui circolano i sottotipi H1, H2 e H3.

Il mondo dei virus influenzali è paragonabile ad un gigantesco laboratorio in cui avvengono continue trasformazioni del corredo genetico dei singoli virus che, oltre ad avere una spiccata propensione a mutazioni spontanee, sono soggetti ad un rimaneggiamento del loro
corredo genetico tramite lo scambio- chiamato riassortimento  - di materiale appartenente a sottotipi diversi, così da generare virus del tutto nuovi. Il virus influenzale è costituito da 8 segmenti di RNA e nel corso delle epidemie che colpiscono milioni di animali di specie diverse non è raro che uno stesso organismo venga attaccato da due virus diversi e dal rimescolamento dei segmenti genetici nasca una progenie con caratteristiche mutate. Alcune di queste varianti si dimostrano scarsamente vitali e si estinguono in tempi brevi, altre hanno una migliore capacità infettiva che permette loro di riprodursi in modo efficace e di guadagnarsi uno spazio nell’ ambito delle varie specie circolanti. In qualche caso nascono virus che sono in grado di attaccare gli esseri umani. Questo può avvenire in maniera limitata, come è stato finora con i virus H5N1 e H7N9 o estesa come è avvenuto con i virus pandemici. Generalmente si ritiene che affinché un virus diventi una seria minaccia per la nostra specie debba condividere materiale genetico sia di provenienza aviaria che umana e, in questo senso,
un ruolo chiave è giocato dai maiali, grazie al fatto che possiedono recettori che permettono l’ attecchimento di entrambi i tipi di virus: l’ ultima pandemia è un chiaro esempio in questo senso. I cambiamenti ambientali, demografici ed economici che hanno interessato il nostro pianeta nelle ultime decadi agiscono nel senso di favorire sia la probabilità  di eventi di questo tipo sia la rapidità dei una loro diffusione su larga scala.

Anche se i molti allarmi lanciati dagli organismi mondiali preposti ad esercitare la vigilanza ci hanno un po’ assuefatto e spinto in larga parte ad uno distaccato scetticismo è opportuno non abbassare la guardia e seguire le notizie che vengono divulgate in questi giorni con un atteggiamento sereno ma anche attento a cogliere quelli che possono essere gli imprevedibili sviluppi.







domenica 16 novembre 2014

Ebola e Influenza: chi dobbiamo temere di più?







Ebola è la minaccia del momento, a cui vengono dedicati grandi titoli di prima pagina, che suscita allarmi che rimbalzano a livello planetario e, come riportano le cronache, all’ origine di   episodi di isteria nella popolazione al solo sospetto di casi, non importa quanto poco probabili. Viviamo in una società, almeno la nostra occidentale, molto più sicura e protetta nei confronti dei rischi per la salute, questo grazie agli indubbi progressi nel campo dell’ igiene, della medicina e della scienza ma non più libera da paure irrazionali. Nonostante non si verifichino più le epidemie dagli effetti devastanti come la peste o il vaiolo, nella gente comune è rimasta una paura atavica nei confronti di malattie che possano farci ripercorrere quelle pagine nere della nostra storia. E’ quanto sta avvenendo con ebola, a motivo delle cronache che ci hanno testimoniato delle terribili conseguenze della malattia nelle persone colpite e dell’ avanzata che in certi momenti è sembrata inesorabile e vicina a mettere a rischio la sicurezza dei nostri paesi. Abbiamo discusso in un precedente post le ragioni per le quali è altamente improbabile che ci possano essere rischi reali per la nostra società. Oggi vedremo insieme perché l’ influenza è in realtà una malattia molto più pericolosa, anche se nella percezione generale viene vista come una malattia di scarso rilevo e all’ origine di allarmi gonfiati da parte delle autorità che si occupano di esercitare la vigilanza a livello mondiale. Lo possiamo capire mettendo a  confronto le due malattie. Iniziamo con i dati storici. 

Ebola è un virus che pur esistendo da epoche lontane, ha fatto la sua comparsa ufficiale con il primo caso umano solo nel 1976, in una località dello Zaire nei pressi di un fiume da cui deriva il suo nome. In precedenza ha circolato in maniera silente, come semplice ospite inoffensivo, nell’ ambito delle popolazioni di pipistrelli dell’ africa e occasionalmente si è trasmesso ad alcuni primati che si cibavano di frutti contaminati. I pipistrelli rappresentano il serbatoio principale, anche se vengono sospettate altre specie come uccelli, artropodi e perfino piante.

L’ influenza invece è una malattia che è presente nella specie umana sin dagli albori della storia. Anche se il virus è stato isolato solo nel 1931, la sua presenza è testimoniata dalle cronache del passato che ci raccontano di epidemie con caratteristiche simili a quelle odierne. La prima pandemia documentata risale al 1500.

Ebola spaventa di più in virtù della sua alta letalità. Infatti fino al 70% dei soggetti colpiti vengono uccisi dal virus, che ha la tendenza di sconvolgere il nostro sistema immunitario e di provocare disfunzioni in vari organi. L’ influenza è invece accreditata di una mortalità molto più bassa, dell’ ordine dello 0,1% dei casi. Perfino la terribile pandemia del 1918 aveva un indice di letalità che si calcola non superiore  al 2%. Sotto questo aspetto diciamo che non c’è paragone e la sfida, se vogliamo chiamarla così, sembra essere nettamente a favore del virus africano. 

Ma vi sono molti altri aspetti che bisogna considerare per valutare la reale pericolosità di una malattia. Ebola, come abbiamo detto, provoca una malattia dagli effetti devastanti che dà poche speranze a chi la contrae, ma questo risulta essere anche uno dei suoi più  grossi limiti. Le ragioni del successo dei virus, da quelli più comuni ad altri meno conosciuti, consiste nel creare un equilibrio tra aggressore ed ospite tale da permettere al virus non solo di replicarsi ma anche di diffondere a molti altri contatti e perpetuare così la sua esistenza. Un virus che uccide più del 40-50% dei soggetti colpiti limita anche grandemente la sua capacità di trasmissione, tanto più quanto maggiore sarà la sua letalità. Possiamo paragonarlo ad un fuoco impetuoso che, una volta che ha esaurito la materia che lo alimenta, è destinato ad estinguersi. 
 Un altro limite di ebola è il fatto di essere trasmissibile solo per contatto diretto con soggetti che manifestano la malattia in maniera sintomatica e con sintomi per di più molto evidenti e  comunque tali da non passare inosservati. Nella fase che precede la comparsa dei sintomi o da parte  di soggetti che contraggono l’ infezione in modo silente, come può essere dimostrato a posteriori da una positività delle indagini sierologiche, non avviene trasmissione. Tutto questo facilita le misure di profilassi e di quarantena che, se realizzate in maniera rigorosa, riescono ad arginare la sua propagazione.




Il virus influenzale, al contrario, è un virus che nella sua storia millenaria si è adattato perfettamente all’ uomo. Vediamo quali sono le caratteristiche che lo contraddistinguono rispetto ad ebola e ad altri patogeni emergenti e ne fanno un virus vincente:

-Si trasmette da uomo a uomo senza bisogno di utilizzare vettori animali e, grazie alla presenza nelle goccioline sospese nell’ aria, anche a distanze di diversi metri dal soggetto infetto.

-Il contagio avviene già nella fase in cui il soggetto è asintomatico e inoltre una grande maggioranza di ammalati presenta quadri lievi o del tutto inapparenti rendendolo difficilmente contenibile mediante le tradizionali misure igieniche e di quarantena.

-E’ in grado di diffondere in tempi molto rapidi a livello planetario, come si è visto con il virus pandemico H1N1.

-Pur avendo una bassa letalità, la sua ampia diffusione comporta un bilancio globale di 4-500000 morti che si rinnova ogni anno.

-E’ ampiamente diffuso nel regno animale, in moltissime specie, in particolare negli uccelli selvatici che costituiscono il serbatoio principale e che con le rotte migratorie lo veicolano  a grandi distanze.

 - Attraverso continui scambi tra le specie si determinano riarrangiamenti del materiale genetico e l’ emergenza di nuovi ceppi che hanno la potenzialità di saltare all’ uomo e di dare luogo a nuove  pandemie.

Il virus ebola possiamo raffigurarlo come un gigante di cartapesta, reso grande solo dalle nostre debolezze e destinato a sgonfiarsi quando viene contrastato con misure efficaci e tempestive. Il virus dell’  influenza invece è scaltro e si mimetizza dietro un’immagine apparentemente innocua, ma in realtà rappresenta un’ emergenza costante, che richiede un grande impegno dei sistemi sanitari dei singoli paesi per limitarne le ricadute stagionali e  degli organi di sorveglianza mondiali per monitorarne gli imprevedibili sviluppi.




domenica 9 novembre 2014

Influenza: cosa ci aspetta la prossima stagione?






Ogni anno, quando l’ estate appena passata sembra un ricordo lontano e con le prime nebbie si annunciano  i rigori dell’ inverno imminente, sulle pagine dei giornali, immancabile, si ritorna a parlare di influenza. E il tema viene affrontato sotto varie angolazioni, con titoli più o meno ad effetto ed interviste agli  esperti di turno che, assumendo i panni dei meteorologi  di prima serata, si avventurano in pronostici su quello che sarà l’ andamento della stagione alle porte. E’ così che anche quest’ anno si possono leggere titoli che prefigurano una stagione leggera   ma anche altri che ci mettono in guardia contro un andamento severo . Da che parte sta la verità?

A settembre del 2012 sul Corriere della Sera online si poteva leggere questa notizia.





 Si riferiva alla minaccia rappresentata da due nuovi ceppi di influenza che, si prevedeva,  avrebbero circolato in quell’ anno e, notate, si portano come confronto le due “miti” stagioni precedenti. Il tono della notizia sembra rievocare quello degli allarmi legati al virus H1N1 solo che, in questo caso, al posto di uno, arrivano ben due virus cattivi. L’ allarme sembra essere partito da una delle tante società scientifiche presenti in Italia. Interessante leggere la reazione delle persone che scrivono la loro opinione in fondo all’ articolo: 





Prevalgono nettamente i commenti strafottenti e canzonatori, con richiami espliciti a presunti  interessi commerciali o addirittura complotti delle case farmaceutiche, ma c’è anche un commentatore che vive da diversi anni in un paese straniero e si dichiara stupito di come l’ influenza sia presa sottogamba dai nostri connazionali.

E’ un esempio paradigmatico di come da una parte ci sia la tendenza dei media ad enfatizzare le notizie di pericoli e minacce, non si sa quanto veritiere, mentre dall’ altra scatti una specie di riflesso condizionato che porta la gente comune a rigettare tali notizie come infondate.

Ma alla base di tutto questo c’ è  un’ informazione scientifica che, anziché mettere le persone nelle condizioni di capire quello che succede, lancia allarmi che finiscono per essere interpretati come ennesime chiamate al lupo. Allarmi che, diciamolo subito, in questo caso non erano giustificati.

 Ma vediamo di capire bene come stanno le cose. Il virus influenzale non è un’ entità stabile nel tempo, ma ha la tendenza a modificarsi continuamente sotto l’ effetto della pressione selettiva che subisce nell’ ambito delle popolazioni in cui si diffonde. Se restasse inalterato, dopo aver contagiato un numero elevato di persone si troverebbe a dover attendere numerosi anni prima che si ricostituisca una popolazione sufficientemente ampia di persone suscettibili che gli permetta di circolare nuovamente. Altri virus, come il  morbillo e la varicella, sono più stabili nel tempo e hanno la tendenza di causare epidemie cicliche con intervalli di 3-4 anni e che rendono immuni a vita i soggetti colpiti. Questa è la caratteristica propria dei virus a DNA, mentre il virus influenzale, che appartiene alla famiglia degli Orthomyxovirus, è un virus a RNA e, come altri della sua categoria, ha il “difetto” di mutare con notevole rapidità, ma questa è anche la ragione del suo grande successo. Di qui la necessità di variare ogni anno la composizione del vaccino ed è compito dell’ OMS di fornire le raccomandazioni a proposito, sulla base delle informazioni raccolte tramite il Global Influenza Surveillance Network, che a sua volta si avvale della collaborazione dei National Influenza Centres (NIC) presenti in 111 Paesi.  Per deliberare  si riunisce due volte all’ anno, a settembre e a marzo, rispettivamente per l’ emisfero nord e quello sud, con un largo anticipo rispetto alle stagioni interessate, poiché le ditte farmaceutiche hanno bisogno di tempi lunghi per allestire le linee produttrici. In tutto questo tempo i virus hanno l’ opportunità di cambiare, a volte anche in maniera sostanziale, 
come è avvenuto con il ceppo che si vede in figura,  responsabile di una stagione severa nel 2002-03, in quanto variante non presente nel vaccino di quell’ anno.

 Ogni ceppo influenzale è identificato mediante una sigla, con l’ indicazione del tipo (A o B), località in cui è stato isolato, numero progressivo, anno di isolamento e sottotipo. I ceppi che prevalgono in questi ultimi anni e che entrano nella formulazione dei vaccini sono tre, due di tipo A ( sottotipi H3N2 e H1N1) e uno di tipo B.

Tornando all’ articolo citato sopra, si parla della minaccia rappresentata da due nuovi virus, ma in realtà i due ceppi erano stati si delle novità, ma nel corso dell’ anno precedente, quando avevano caratterizzato l’ ultima parte di una stagione che, stando ai rapporti provenienti da più parti d’ Europa, non era stata per niente mite. I bollettini sulla mortalità divulgati da diversi paesi europei, ma non dall’ Italia in cui manca un siffatto sistema di monitoraggio, avevano dimostrato un impatto severo sulla mortalità, in particolare nella popolazione anziana. Per questo l' OMS li ha inseriti nelle sue raccomandazioni per la stagione successiva.
 L' informazione scientifica che viene data alla gente comune deve essere il più possibile obiettiva e circostanziata e non deve limitarsi a proclami destinati a cadere nel vuoto o a suscitare reazioni di rifiuto.

Come sarà quindi  l’ influenza di quest’ anno? Non lo sappiamo, ma è comunque opportuno prepararsi al meglio, ad iniziare dalla vaccinazione, da proporsi primariamente per le categorie a rischio, per gli anziani ma opportuna anche per altre fasce della popolazione come quella pediatrica.























domenica 2 novembre 2014

Quanto dobbiamo essere spaventati da Ebola

















Il mio primo post lo dedico all’ emergenza che sta focalizzando l’ attenzione di molti commentatori  e tiene con il fiato sospeso milioni di persone per i possibili sviluppi: mi riferisco all’ epidemia di ebola. E’ una vicenda che ritengo paradigmatica di come il mondo sia ancora largamente impreparato a gestire emergenze globali, nonostante e probabilmente anche a motivo di precedenti crisi che hanno tenuto banco negli ultimi decenni, a partire dall’ emergenza del virus H5N1, della Sars, della pandemia da virus H1N1. Il fatto che tutte queste situazioni potenzialmente pericolose si siano risolte in una bolla di sapone, induce l’ opinione pubblica mondiale e anche le istituzioni che le rappresentano ad una sorta di assuefazione, con il risultato che ogni nuovo pericolo che si affaccia all’ orizzonte rischia di essere in definitiva banalizzato. Non si riflette invece a sufficienza sul significato di queste crisi ripetute in tempi ravvicinati e sul messaggio, che non può sfuggire ad osservatori attenti, di una fragilità dell’ ecosistema mondiale nei confronti di un numero crescente di minacce che trovano un terreno favorevole nella rottura degli equilibri planetari. Se una persona si ammala sempre più spesso sarà portata a pensare che il proprio organismo si sia indebolito e cercherà delle spiegazioni e delle possibili soluzioni, ma se è il mondo ad essere vittima di un numero sempre più grande di emergenze ambientali, climatiche, epidemiche ci si allarma solo di fronte ai singoli episodi per poi proseguire spensieratamente lungo un crinale che non si sa dove possa condurre.

Venendo ad ebola, le notizie degli ultimi giorni sembrano essere indicative di una svolta positiva. Vi sono infatti report e dichiarazioni di funzionari dell’ OMS  che dimostrerebbero come in Liberia, il paese più colpito, ci sia finalmente un declino nel numero dei casi, dimostrato dai letti vuoti nelle cliniche, dal minor numero di casi confermati e da un calo delle sepolture . Non è il caso di abbassare troppo prematuramente la guardia,  però è plausibile che gli sforzi prodotti dalla comunità internazionale nell’ invio di uomini e materiali e una maggiore efficacia delle campagne di sensibilizzazione della popolazione stiano producendo dei risultati concreti. Non va però dimenticato che se si è arrivati a questo punto lo dobbiamo all’ inerzia delle nazioni occidentali, piuttosto restie nel prendere sul serio la minaccia posta dall’ epidemia rampante, almeno fino a quando ad essere minacciati sono stati gli interessi dei paesi forti, che hanno capito che una destabilizzazione dell’ area rischiava di ripercuotersi su tutti gli equilibri internazionali. Inerzia che ha coinvolto la stessa OMS, che ha dovuto fare autocritica di fronte alla negligenza e pigrizia di suoi funzionari regionali nel corso delle fasi iniziali della crisi. E’ cosi che un’ epidemia partita da un bambino di 2 anni rimasto infetto a dicembre dello scorso anno nelle foreste della  Guinea e che poi da un primo focolaio a marzo, sempre in Guinea, ha iniziato a propagarsi alle regioni limitrofe, prima della Liberia e poi in Sierra Leone, si è estesa fino a raggiungere gli attuali livelli. Un’ epidemia che avrebbe potuto essere contenuta abbastanza agevolmente se si fosse intervenuti in maniera decisa nelle prime fasi e che invece è diventata una catastrofe umanitaria di cui solo adesso, forse, si incomincia ad intravedere una fine. I numeri sono impressionanti e superano di gran lunga quelli dei precedenti focolai. L’ ultimo bilancio del 31-10  parla di 13657 casi e 4951 decessi, con   521 operatori sanitari coinvolti di cui 272 sono deceduti.  Come confronto più vicino numericamente possiamo citare l’ epidemia in Congo nel 1976 con 280 morti ( 318 casi) nel Congo nel 1976 e quella in Uganda con  224 decessi (400 casi) nel 2000-01. 

Probabilmente è stato proprio il raffronto con questi episodi del passato che ha indotto a sottovalutare la portata della crisi attuale e a non dare ascolto agli allarmi che gli operatori delle varie ONG presenti nel territorio avevano lanciato già da diverso tempo. Va detto con chiarezza che le ragioni di questa drammatica situazione non risiedono in una maggiore aggressività del virus, in quanto le caratteristiche cliniche ed epidemiologiche  risultano essere sovrapponibili a quelle dimostrate dai suoi predecessori. Decisivi sono stati da una parte i fattori locali come la  povertà, la carenza di risorse, le credenze e barriere culturali dei paesi coinvolti e dall’ altra le reticenze e i ritardi dei  paesi occidentali nel riconoscere la gravità della situazione. Tutto questo ha fatto si che da malattia di sperduti villaggi nella foresta è diventata un’ epidemia che ha interessato importanti aree metropolitane, con quello che ha comportato in termini di aumento esponenziale del numero dei casi.



Quali timori dobbiamo avere noi abitanti dei paesi privilegiati?
 

Le notizie provenienti dall’ Africa occidentale, amplificate dalla stampa mondiale specialmente in occasione dei primi casi importati e del coinvolgimento di alcuni membri dello staff sanitario negli USA, hanno creato parecchio allarme con chiusure di frontiere o restrizioni immotivate delle libertà di movimento e scene di vera e propria isteria da parte della popolazione, che in più occasioni ha fatto appelli per l’ allontamento degli immigrati africani considerati a rischio indipendentemente dalla loro provenienza. Qualche timore è stato sollevato da esponenti del mondo scientifico, che paventavano la possibile acquisizione  del virus della capacità di trasmettersi per via aerea, ma questo appare una eventualità abbastanza remota, che per di più non ha nessun precedente nel mondo microbiologico.



Anche se mancano  o sono frammentari i dati relativi all’ andamento epidemiologico dell’ attuale epidemia, non ci sono motivi per ritenerla diversa da quelle che l’ hanno preceduta,se non per le proporzioni numeriche. La velocità di diffusione di un’ epidemia è misurata da un parametro che si chiama Rzero, che rappresenta il numero di persone contagiate da un caso indice in una popolazione totalmente suscettibile. 



                                               Più è alto e maggiore sarà il numero di persone contagiate e il ritmo di progressione della malattia nella popolazione. Malattie come il morbillo, la varicella hanno valori di Rzero molto elevati, pari a 12-15, mentre in altre malattie tale valore è più basso. Per  ebola, un lavoro recente lo ha stimato in 1.6, valore paragonabile a quello calcolato in passato (1). Il periodo di incubazione, durante il quale i soggetti NON sono contagiosi, è in media di 8-10 gg  ma può andare da un minimo di 2 ad massimo di 21 giorni, che è anche il periodo che viene richiesto per la quarantena dei contatti. Il contagio umano avviene tramite contatto diretto con animali infetti o con il sangue e altri fluidi corporei delle persone infette. Non esistono portatori sani che possono trasmettere la malattia. I livelli del virus nel sangue salgono in maniera esponenziale durante le fasi acute della malattia e un numero significativo di pazienti presenta vomito, diarrea e, nelle fasi terminali, sanguinamenti. Persone che hanno contatti non protetti con il malato o che manipolano i corpi nelle fasi subito successive alla morte sono ad alto rischio di esposizione e di contagio. Negli studi sperimentali con primati e porcellini è stata dimostrata la trasmissione mediante esposizione ad aerosol di particelle o tra animali in gabbie separate, ma questa modalità non è mai stata dimostrata in ambienti domestici e ospedalieri.   Esiste invece la possibilità di trasmissione attraverso superfici contaminate: i filovirus, a cui appartiene ebola, sono in grado di sopravvivere in liquidi o in materiale secco per diversi giorni. In Uganda una persona si è contaminata dormendo con una coperta di una persona precedentemente infetta, ma sono pochi i casi in cui si è documentata una trasmissione attraverso oggetti o altro materiale. Durante un’ epidemia verificatasi nel 1995  a Kikwit nel Congo, 28 (16%) di 173 contatti famigliari studiati di 27 casi primari si sono infettati e tutti avevano avuto un contatto diretto con i corpi e i fluidi biologici mentre nessuno di quelli che non avevano avuto tali contatti si è infettato. (2)

Nel corso della stessa epidemia sono morti 12 soggetti ( 3,8%) in cui non era riferito nessun contatto, ma si tratta di notizie ricavate  dalle interviste di famigliari e quindi non del tutto attendibili.

Una volta che un soggetto guarisce dal virus non risulta più  contagioso, anche se il virus è reperibile nel seme fino a 3 mesi, ma va detto che finora non è stata documentata questa via di trasmissione.
Tutto questo comporta che il rischio che la malattia possa propagarsi in un contesto di alto profilo sanitario come il nostro è praticamente inesistente, in quanto è sufficiente l' adozione di misure di adeguata protezione nei confronti dei soggetti malati e di quarantena  dei contatti per bloccare sul nascere la diffusione. Gli unici rischi della situazione è che l’ epidemia possa diventare endemica nei paesi africani, con una circolazione continua a bassi livelli e improvvise fiammate, con deleteri effetti sui sistemi sociali e le economie dei paesi coinvolti o che possa venire esportata nelle zone più svantaggiate di altri continenti, con conseguenze ben più gravi per gli equilibri mondiali.  Ma il rischio più concreto è che la crisi possa risolversi in tempi più o meno lunghi e che venga archiviata come ennesima emergenza “fasulla”, al pari di altre dell’ ultimo decennio, senza che si prenda coscienza del significato di eventi ripetuti di questa natura rispetto alla rottura di equilibri globali  e della possibilità che possano preludere a scenari ben più gravi e più difficili da governare. 

1)  Strategies for containing Ebola in West Africa Science DOI: 10.1126/science.1260612

2)  Ebola hemorrhagic fever, Kikwit, Democratic Republic of the Congo, 1995: risk factors for patients without a reported exposure. The Journal of Infectious Diseases. Feb 1999;179 Suppl 1:S92-97