Il mio primo post lo dedico all’ emergenza che sta focalizzando l’ attenzione di molti commentatori e tiene con il fiato sospeso milioni di persone per i possibili sviluppi: mi riferisco all’ epidemia di ebola. E’ una vicenda che ritengo paradigmatica di come il mondo sia ancora largamente impreparato a gestire emergenze globali, nonostante e probabilmente anche a motivo di precedenti crisi che hanno tenuto banco negli ultimi decenni, a partire dall’ emergenza del virus H5N1, della Sars, della pandemia da virus H1N1. Il fatto che tutte queste situazioni potenzialmente pericolose si siano risolte in una bolla di sapone, induce l’ opinione pubblica mondiale e anche le istituzioni che le rappresentano ad una sorta di assuefazione, con il risultato che ogni nuovo pericolo che si affaccia all’ orizzonte rischia di essere in definitiva banalizzato. Non si riflette invece a sufficienza sul significato di queste crisi ripetute in tempi ravvicinati e sul messaggio, che non può sfuggire ad osservatori attenti, di una fragilità dell’ ecosistema mondiale nei confronti di un numero crescente di minacce che trovano un terreno favorevole nella rottura degli equilibri planetari. Se una persona si ammala sempre più spesso sarà portata a pensare che il proprio organismo si sia indebolito e cercherà delle spiegazioni e delle possibili soluzioni, ma se è il mondo ad essere vittima di un numero sempre più grande di emergenze ambientali, climatiche, epidemiche ci si allarma solo di fronte ai singoli episodi per poi proseguire spensieratamente lungo un crinale che non si sa dove possa condurre.
Venendo ad ebola, le notizie degli ultimi giorni sembrano essere
indicative di una svolta positiva. Vi sono infatti report e dichiarazioni di
funzionari dell’ OMS che
dimostrerebbero come in Liberia, il paese più colpito, ci sia finalmente un
declino nel numero dei casi, dimostrato dai letti vuoti nelle cliniche, dal
minor numero di casi confermati e da un calo delle sepolture .
Non è il caso di abbassare troppo prematuramente la guardia, però è plausibile che gli sforzi prodotti
dalla comunità internazionale nell’ invio di uomini e materiali e una maggiore
efficacia delle campagne di sensibilizzazione della popolazione stiano producendo
dei risultati concreti. Non va però dimenticato che se si è arrivati a questo
punto lo dobbiamo all’ inerzia delle nazioni occidentali, piuttosto restie nel
prendere sul serio la minaccia posta dall’ epidemia rampante, almeno fino a
quando ad essere minacciati sono stati gli interessi dei paesi forti, che hanno
capito che una destabilizzazione dell’ area rischiava di ripercuotersi su tutti
gli equilibri internazionali. Inerzia che ha coinvolto la stessa OMS, che ha
dovuto fare autocritica di fronte alla negligenza e pigrizia di suoi funzionari
regionali nel corso delle fasi iniziali della crisi. E’
cosi che un’ epidemia partita da un bambino di 2 anni rimasto infetto a
dicembre dello scorso anno nelle foreste della
Guinea e che poi da un primo focolaio a marzo, sempre in Guinea, ha
iniziato a propagarsi alle regioni limitrofe, prima della Liberia e poi in
Sierra Leone, si è estesa fino a raggiungere gli attuali livelli. Un’ epidemia che avrebbe
potuto essere contenuta abbastanza agevolmente se si fosse intervenuti in
maniera decisa nelle prime fasi e che invece è diventata una catastrofe
umanitaria di cui solo adesso, forse, si incomincia ad intravedere una fine. I
numeri sono impressionanti e superano di gran lunga quelli dei precedenti
focolai. L’ ultimo bilancio del 31-10
parla di 13657 casi e 4951 decessi,
con 521 operatori sanitari coinvolti
di cui 272 sono deceduti. Come
confronto più vicino numericamente possiamo citare l’ epidemia in Congo nel
1976 con 280 morti ( 318 casi) nel Congo nel 1976 e quella in Uganda con 224 decessi (400 casi) nel 2000-01.
Probabilmente è stato proprio il raffronto con questi episodi del passato che
ha indotto a sottovalutare la portata della crisi attuale e a non dare ascolto
agli allarmi che gli operatori delle varie ONG presenti nel territorio avevano
lanciato già da diverso tempo. Va detto con chiarezza che le ragioni di questa
drammatica situazione non risiedono in una maggiore aggressività del virus, in
quanto le caratteristiche cliniche ed epidemiologiche risultano essere sovrapponibili a quelle dimostrate dai suoi
predecessori. Decisivi sono stati da una parte i fattori locali come la
povertà, la carenza di risorse, le credenze e barriere culturali dei paesi
coinvolti e dall’ altra le reticenze e i ritardi dei paesi occidentali nel riconoscere la gravità della situazione.
Tutto questo ha fatto si che da malattia di sperduti villaggi nella foresta è
diventata un’ epidemia che ha interessato importanti aree metropolitane, con
quello che ha comportato in termini di aumento esponenziale del numero dei
casi.
Quali timori dobbiamo avere noi abitanti dei paesi privilegiati?
Le notizie provenienti dall’ Africa occidentale, amplificate dalla
stampa mondiale specialmente in occasione dei primi casi importati e del
coinvolgimento di alcuni membri dello staff sanitario negli USA, hanno creato
parecchio allarme con chiusure di frontiere o restrizioni immotivate delle
libertà di movimento e scene di vera e propria isteria da parte della
popolazione, che in più occasioni ha fatto appelli per l’ allontamento degli
immigrati africani considerati a rischio indipendentemente dalla loro
provenienza. Qualche timore è stato sollevato da esponenti del mondo
scientifico, che paventavano la possibile acquisizione del virus della capacità di trasmettersi per
via aerea, ma questo appare una eventualità abbastanza remota, che per di più
non ha nessun precedente nel mondo microbiologico.
Anche se mancano o sono
frammentari i dati relativi all’ andamento epidemiologico dell’ attuale
epidemia, non ci sono motivi per ritenerla diversa da quelle
che l’ hanno preceduta,se non per le proporzioni numeriche. La velocità di
diffusione di un’ epidemia è misurata da un parametro che si chiama Rzero, che
rappresenta il numero di persone contagiate da un caso indice in una popolazione
totalmente suscettibile.
Più è alto e maggiore sarà il numero di persone
contagiate e il ritmo di progressione della malattia nella popolazione.
Malattie come il morbillo, la varicella hanno valori di Rzero molto elevati,
pari a 12-15, mentre in altre malattie tale valore è più basso. Per ebola, un lavoro recente lo ha stimato in
1.6, valore paragonabile a quello calcolato in passato (1). Il periodo di
incubazione, durante il quale i soggetti NON sono contagiosi, è in media di
8-10 gg ma può andare da un minimo di
2 ad massimo di 21 giorni, che è anche il periodo che viene richiesto per la
quarantena dei contatti. Il contagio umano avviene tramite contatto diretto con
animali infetti o con il sangue e altri fluidi corporei delle persone infette.
Non esistono portatori sani che possono trasmettere la malattia. I livelli del
virus nel sangue salgono in maniera esponenziale durante le fasi acute della
malattia e un numero significativo di pazienti presenta vomito, diarrea e,
nelle fasi terminali, sanguinamenti. Persone che hanno contatti non protetti
con il malato o che manipolano i corpi nelle fasi subito successive alla morte
sono ad alto rischio di esposizione e di contagio. Negli studi sperimentali con
primati e porcellini è stata dimostrata la trasmissione mediante esposizione ad
aerosol di particelle o tra animali in gabbie separate, ma questa modalità non
è mai stata dimostrata in ambienti domestici e ospedalieri. Esiste invece la possibilità di
trasmissione attraverso superfici contaminate: i filovirus, a cui appartiene
ebola, sono in grado di sopravvivere in liquidi o in materiale secco per
diversi giorni. In Uganda una persona si è contaminata dormendo con una coperta
di una persona precedentemente infetta, ma sono pochi i casi in cui si è
documentata una trasmissione attraverso oggetti o altro materiale. Durante un’
epidemia verificatasi nel 1995 a Kikwit
nel Congo, 28 (16%) di 173 contatti famigliari studiati di 27 casi primari si
sono infettati e tutti avevano avuto un contatto diretto con i corpi e i fluidi
biologici mentre nessuno di quelli che non avevano avuto tali contatti si è
infettato. (2)
Nel corso della stessa epidemia sono morti 12 soggetti ( 3,8%) in cui
non era riferito nessun contatto, ma si tratta di notizie ricavate dalle interviste di famigliari e quindi non
del tutto attendibili.
Una volta che un soggetto guarisce dal virus non risulta più
contagioso, anche se il virus è reperibile nel seme fino a 3 mesi, ma va detto
che finora non è stata documentata questa via di trasmissione.
Tutto questo comporta che il rischio che la malattia possa propagarsi in
un contesto di alto profilo sanitario come il nostro è praticamente inesistente, in quanto è
sufficiente l' adozione di misure di adeguata protezione nei confronti dei soggetti
malati e di quarantena dei contatti per
bloccare sul nascere la diffusione. Gli unici rischi della situazione è che l’
epidemia possa diventare endemica nei paesi africani, con una circolazione
continua a bassi livelli e improvvise fiammate, con deleteri effetti sui
sistemi sociali e le economie dei paesi coinvolti o che possa venire esportata nelle zone più svantaggiate di altri continenti, con conseguenze ben più gravi
per gli equilibri mondiali.
Ma il rischio più concreto è che la crisi possa risolversi in tempi più
o meno lunghi e che venga archiviata come ennesima emergenza “fasulla”, al pari
di altre dell’ ultimo decennio, senza che si prenda coscienza del significato di
eventi ripetuti di questa natura rispetto alla rottura di equilibri globali e della possibilità che possano preludere a scenari ben più gravi e più difficili
da governare. 1) Strategies for containing Ebola in West Africa Science DOI: 10.1126/science.1260612
2) Ebola hemorrhagic fever, Kikwit, Democratic Republic of the Congo, 1995: risk factors for patients without a reported exposure. The Journal of Infectious Diseases. Feb 1999;179 Suppl 1:S92-97
Good blog.
RispondiEliminagrazie
Elimina