Le cronache di questi giorni hanno dato ampio risalto ai
numerosi casi di meningite da meningococco, alcuni purtroppo mortali, che hanno
colpito la Toscana e in particolare la zona di Empoli, nell’ arco di poche
settimane. All’ origine di molti di
questi casi è stato individuato il ceppo C. Questo dato ha sorpreso gli
esperti, in quanto appare in controtendenza rispetto all’ andamento degli ultimi
anni, in cui vi è verificata una riduzione fino a numeri prossimi allo zero dei casi
imputabili a questo ceppo, a fronte di un aumento delle patologie legate al ceppo B, contro il quale fino a poco tempo fa non esisteva il vaccino. Casi analoghi si sono
registrati anche in altre regioni. Una possibile spiegazione, al vaglio degli
esperti, è che all’ origine di questo inopinato aumento ci sia il virus
influenzale. Vediamo di capire quali sono i retroscena di questa suggestiva e attendibile ipotesi.
L’ influenza è una causa importante di morbilità e di
mortalità. Si calcola che nel mondo ogni anno muoiano 5-600000 persone in
conseguenza diretta o indiretta dell’ infezione, con ampie oscillazioni nel numero a
seconda dei diversi ceppi e della presenza di varianti più aggressive, come quelle
protagoniste degli eventi pandemici. Solo una parte di questi decessi viene
però ufficialmente riconosciuta, in quanto molti avvengono come conseguenza di
patologie che trovano nel virus
influenzale l’ elemento scatenante, che però non viene ricercato o individuato e
non figura così nelle certificazioni di morte. Solo l’ analisi a posteriori delle
tabelle di mortalità, mediante sistemi statistici, consente di ricostruire l’
entità del fenomeno. Una causa importante di decessi collegabili all’ influenza
sono dovuti alle infezioni batteriche che trovano nel virus influenzale un prezioso
alleato, in grado di aprire le porte agli organi interni e di rinforzarne l’ azione
patogena.
Il corpo umano ospita un gran numero di specie batteriche,
definite nel loro complesso microbioma. Molti di questi batteri sono commensali
che vivono in simbiosi con l’ organismo che li ospita, a cui forniscono utili
principi nutritivi e protezione nei confronti di ceppi patogeni. In alcuni casi
sono presenti minime quantità di batteri pericolosi, come ad esempio nella pelle o nel rinofaringe, senza che ciò
apporti gravi conseguenze, a meno che non si creino le condizioni adatte ad
un loro ingresso in siti normalmente sterili e ad un aumento della loro
aggressività. Il virus influenzale è considerato uno dei principali artefici di
questa evoluzione.
Il primo ad accorgersi della maggiore incidenza di polmoniti
in occasione delle epidemie di “grippe” è stato Laennec a Parigi nel 1803. In Germania nel 1890 c' è stata la prima osservazione microscopica di germi patogeni complicanti l’ influenza, durante la pandemia russa dell’ 1889-1893, con l’
isolamento di streptococchi in 7 su 45 pazienti deceduti.
Durante la pandemia del 1918, che è stata responsabile di 50
milioni di morti, più del 90% dei decessi è stato attribuito a sovrainfezioni
batteriche ( in particolare da streptococcus pneumoniae) sulla base dei dati relativi ai riscontri autoptici
dell’ epoca, relativi a 10000 soggetti deceduti in 15 paesi, nonché dell’ esame diretto dei tessuti conservati di 58 militari morti nel
corso della pandemia.
Situazioni analoghe sono state riportate, anche se su scala minore, anche per
le pandemie del 1957 e del 1968. I ceppi pandemici sono contraddistinti da una
maggiore virulenza e dalla capacità di
determinare un danno maggiore, rispetto ai loro cugini stagionali, agli epiteli
bronchiali e polmonari facilitando così l’ ingresso e l’ azione dei ceppi
batterici. Nel corso dell’ ultima pandemia il riscontro di sovrainfezioni
batteriche è stato minore ( 25-56% con una mortalità del 14-46%) rispetto alle
precedenti pandemie, ma questo può dipendere da un più frequente e precoce uso
di antibiotici ad ampio spettro nelle forme più gravi.
Un problema emergente in questi ultimi anni è quello dei
batteri resistenti agli antibiotici. Un esempio emblematico è
rappresentato dalle infezioni stafilococciche che, dopo aver subito una riduzione, sono tornate
prepotentemente alla ribalta grazie alla diffusione dei ceppi meticillino resistenti (MRSA), frequente
causa di sovrainfezioni mortali, come nei bambini.
Gli stafilococchi sono ospiti innocui che vivono sulla nostra cute e nelle
narici, ma causano complicazioni catastrofiche quando si associano all’
infezione influenzale. Durante la stagione 2006-07 negli Usa 11 soggetti su 33
( 33% ) con polmonite da MRSA, in cui è stata eseguita la ricerca virale, aveva
un’ infezione influenzale antecedente.
Il pneumococco ( streptococcus pneumoniae) è un’ importante
causa di morbilità e mortalità globale e gli studi degli ultimi anni hanno
messo in evidenza la sua frequente associazione con l’ influenza. Il
pneumococco colonizza in modo transitorio le superfici mucose delle alte vie
respiratorie senza per questo provocare un danno all’ organismo ospite. 8 bambini su 10 sono colonizzati dal pneumococco in qualche periodo della loro vita, molto meno lo sono gli anziani (10%). Lo sviluppo della malattia invasiva si
verifica grazie al superamento delle difese immunitarie di superficie e la
disseminazione nella cavità dell’ orecchio medio ( otite), nelle basse vie
respiratorie (polmonite), nel sangue ( sepsi) e nelle meningi ( meningiti).
Insieme a molti fattori legati all’ ospite, all’ ambiente e a fattori
microbici, i virus respiratori, in particolare l’ influenza, risultano avere un
ruolo importante nel promuovere l’ attività del batterio. Sebbene i virus stagionali abbiano una minore carica lesiva nei confronti degli epiteli che rivestono le vie
respiratorie rispetto ai ceppi pandemici, riescono comunque a favorire l’ azione dei germi patogeni con
modalità che la ricerca ha in parte chiarito in questi ultimi anni.
Nel 2002 McCullers, un pediatra dell’ ospedale di Menphis, ha messo in evidenza come l’
infezione del virus influenzale seguita, dopo una settimana, dall’ inoculazione
del pneumococco portava alla morte il 100% dei topi, mentre questo non avveniva
se l’ infezione pneumococcica precedeva quella influenzale. Un possibile
meccanismo veniva individuato nella maggiore espressione di un recettore (
PAFr) che facilita l’ attecchimento del batterio.
Sempre McCullers nel 2003 ha messo in luce il ruolo dell’ antigene
neuraminidasi che, asportando i residui di acido sialico, favorisce l’
attecchimento del pneumococco e inoltre, secondo uno studio recente, fornisce un nutriente che
ne favorisce la proliferazione.
La compresenza del virus influenzale è in grado di
risvegliare il batterio dallo stato quiescente in cui si trova all’ interno del
biofilm e di attivarne i processi metabolici, consentendogli di raggiungere siti normalmente sterili, anche grazie alla ridotta velocità
di clearance mucociliare.
Un ruolo chiave è giocato dagli squilibri del sistema
immunitario provocati dall’ infezione virale. Da una parte si verifica una inibizione delle cellule deputate a
difenderci da germi potenzialmente pericolosi, come i
neutrofili e i macrofagi, dall’ altra il virus influenzale scatena una
risposta infiammatoria eccessiva, con
un’ aumentato reclutamento degli stessi neutrofili e la produzione di
citochine e di interferone di tipo I, che rendono le
cellule suscettibili all’ attacco microbico, con la mediazione di vari attivatori dell’
infiammazione come i toll-like receptors (TLR) e le proteine chinasi
attivate dal mitogeno (MAP).
Il virus influenzale non solo facilita la colonizzazione e
l’ invasione da parte del pneumococco, ma ne favorisce anche la trasmissione
tra un soggetto e l’ altro, come dimostrato nei furetti, anche se non è stato chiarito come questo avvenga. L’ effetto scatenante della malattia influenzale non si
limita ai periodi immediatamente successivi all’ infezione, ma si prolunga per parecchie settimane, se non addirittura mesi, a causa della desensibilizzazione
delle cellule sentinelle polmonari ai ligandi dei TLR, associata ad una ridotta
produzione di citochine.
I germi patogeni non si limitano a trarre beneficio della
presenza del virus influenzale, ma ricambiano il favore esercitando un azione
di rinforzo nei confronti dell’
attività virale, ad esempio innescando un processo importante nel ciclo di
replicazione virale che consiste nella spaccatura ( cleavage) dell’
emagglutinina ad opera delle proteasi batteriche, come è stato dimostrato con
gli stafilococchi, oppure con la
stimolazione da parte delle tossine batteriche della proteina PB1-F2, che ha un
ruolo importante nel determinare il processo infiammatorio e nell’ indurre e
aggravare la polmonite batterica successiva all’ infezione influenzale.
Inoltre la coinfezione riduce la
risposta delle cellule di tipo B con una minore produzione di Ac contro il
virus influenzale.
Tutti questi meccanismi stanno ad indicare che il virus
influenzale attiva una cascata di eventi che progredisce con il passare del
tempo e che coinvolge componenti delle
nostre difese innate e adattative che, se da una parte portano alla risoluzione
del quadro clinico, dall’ altra possono predisporre all’ attacco da parte dei
batteri, con il massimo della vulnerabilità tra il 7° e il 12° giorno. Questo dato si correla con quello epidemiologico
delle infezioni invasive da pneumococco nei bambini, nei quali il rischio più elevato si registra
a due settimane dall’ infezione influenzale.
Diversi studi hanno dimostrato una correlazione temporale
tra l’ epidemia di influenza e malattie batteriche invasive ( in particolare il
pneumococco): nella popolazione dei bambini sudafricani
durante le epidemie stagionali, nella popolazione di adulti in Spagna nel periodo della
pandemia da virus H1N1, ancora
negli adulti per quanto riguarda le malattie invasive e nei bambini
limitatamente alle polmoniti in uno
studio sulla popolazione danese, nella popolazione inglese, anche se l' aumento non è stato rilevante.
Negli USA, durante il periodo pandemico, si è verificato un
aumento significativo di casi di malattia invasiva, ma non superiore rispetto
alle stagioni influenzali precedenti.
Si è osservato che sono soprattutto i ceppi a basso potenziale
invasivo a determinare quadri severi da confezione sia negli adulti sia nei bambini al
di sotto dei 5 anni, in particolare in assenza di malattie
pregresse.
In realtà, a differenza degli studi sui casi individuali, la maggior parte degli studi di
popolazione non ha dimostrato una correlazione altamente significativa tra epidemie
influenzali e malattie pneumococciche invasive e questo ha per diverso tempo
sconcertato i ricercatori.
Per chiarire questa apparente contraddizione, un gruppo di studiosi dell’ università del Michigan
ha usato un nuovo approccio, riuscendo a dimostrare che l’ influenza aumenta di 100 volte il rischio di
polmonite pneumococcica nel singolo individuo. Analizzando i dati delle
ospedalizzazioni per influenza e polmonite pneumococcica tra il 1989 e il 2009,
ha trovato la prova convincente della maggiore suscettibilità alla
complicazione polmonare nei soggetti affetti dall’ influenza nella settimana
precedente. Durante i picchi di influenza stagionale il 40% delle malattie
pneumococciche è ascrivibile all’ influenza, mentre su base annua tale
percentuale varia dal 2 al 10% dei casi.
Nei riguardi della recente epidemia di casi di meningite C
in Toscana, un' ipotesi verosimile è che ci possa essere alle spalle l’ epidemia di
influenza, che quest’ anno ha colpito in maniera severa proprio la Toscana, come pure altre regioni italiane.
Del resto il
meningococco, alla pari del pneumococco e di altri germi, è presente spesso come ospite inoffensivo nelle vie respiratorie di molti soggetti (10%) senza
essere causa di problemi, a meno che si creino delle condizioni che ne
favoriscano la patogenicità, quali quelle che l' influenza è in grado di produrre. Vi sono degli antecedenti nella letteratura
scientifica che documentano come epidemie di meningite a livello di singole
istituzioni come strutture per malati e ambienti militari o di aree geografiche
siano state precedute da epidemie di influenza con infezione documentata da test di laboratorio.
Una verifica sul piano degli studi epidemiologici si è avuta con uno studio in Francia. Lo scorso anno è stato pubblicato un articolo sulla
rivista PloS ONE,
frutto del lavoro di esperti della CDC, che ha messo in luce come, in 19 stagioni
su 20 analizzate, il picco di influenza ha preceduto di ca 2 settimane il picco
delle infezioni meningococciche con un’ alta correlazione statistica,
soprattutto dopo le epidemie di influenza legate ai ceppi H3N2 e H1N1
stagionali, in misura minore con i virus H1N1-pdm09, B e Respiratorio Sinciziale. Su base
annuale si è calcolato che il 12,8% delle meningiti da meningococco siano da attribuire alla precedente
malattia influenzale, durante il picco di stagione tale percentuale sale al
59%.
Il messaggio finale degli autori di questo studio, ma anche
quello con cui voglio chiudere questa rassegna, è che la vaccinazione contro il
meningococco rimane un’ arma fondamentale di prevenzione, ma altrettanto
importante è la vaccinazione contro l’ influenza, soprattutto nei bambini sani.
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