domenica 12 aprile 2015

Influenza e malattie batteriche invasive: una plausibile spiegazione della recente epidemia di meningiti in Toscana










Le cronache di questi giorni hanno dato ampio risalto ai numerosi casi di meningite da meningococco, alcuni purtroppo mortali, che hanno colpito la Toscana e in particolare la zona di Empoli, nell’ arco di poche settimane. All’ origine  di molti di questi casi è stato individuato il ceppo C. Questo dato ha sorpreso gli esperti, in quanto appare in controtendenza rispetto all’ andamento degli ultimi anni, in cui vi è verificata una riduzione fino a numeri prossimi allo zero dei casi imputabili a questo ceppo, a fronte di un aumento delle patologie legate al ceppo B, contro il quale fino a poco tempo fa non esisteva il vaccino. Casi analoghi si sono registrati anche in altre regioni. Una possibile spiegazione, al vaglio degli esperti, è che all’ origine di questo inopinato aumento ci sia il virus influenzale. Vediamo di capire quali sono i retroscena di questa suggestiva e attendibile ipotesi.



L’ influenza è una causa importante di morbilità e di mortalità. Si calcola che nel mondo ogni anno muoiano 5-600000 persone in conseguenza diretta o indiretta dell’ infezione, con ampie oscillazioni nel numero a seconda dei diversi ceppi e della presenza di varianti più aggressive, come quelle protagoniste degli eventi pandemici. Solo una parte di questi decessi viene però ufficialmente riconosciuta, in quanto molti avvengono come conseguenza di patologie  che trovano nel virus influenzale l’ elemento scatenante, che però non viene ricercato o individuato e non figura così nelle certificazioni di morte. Solo l’ analisi a posteriori delle tabelle di mortalità, mediante sistemi statistici, consente di ricostruire l’ entità del fenomeno. Una causa importante di decessi collegabili all’ influenza sono dovuti alle infezioni batteriche che trovano nel virus influenzale un prezioso alleato, in grado di aprire  le porte agli organi interni e di rinforzarne l’ azione patogena.

Il corpo umano ospita un gran numero di specie batteriche, definite nel loro complesso microbioma. Molti di questi batteri sono commensali che vivono in simbiosi con l’ organismo che li ospita, a cui forniscono utili principi nutritivi e protezione nei confronti di ceppi patogeni. In alcuni casi sono presenti minime quantità di batteri pericolosi, come ad esempio nella pelle o nel rinofaringe, senza che ciò apporti gravi conseguenze, a meno che non si creino le condizioni adatte ad un loro ingresso in siti normalmente sterili e ad un aumento della loro aggressività. Il virus influenzale è considerato uno dei principali artefici di questa evoluzione.

Il primo ad accorgersi della maggiore incidenza di polmoniti in occasione delle epidemie di “grippe” è stato Laennec a Parigi nel 1803. In Germania nel 1890  c' è stata la prima osservazione microscopica di germi patogeni complicanti l’ influenza, durante la pandemia russa dell’ 1889-1893, con l’ isolamento di streptococchi in 7 su 45 pazienti deceduti.

Durante la pandemia del 1918, che è stata responsabile di 50 milioni di morti, più del 90% dei decessi è stato attribuito a sovrainfezioni batteriche ( in particolare da streptococcus pneumoniae)  sulla base dei dati relativi ai riscontri autoptici dell’ epoca, relativi a 10000 soggetti deceduti in 15 paesi, nonché dell’ esame diretto dei tessuti conservati di 58 militari morti nel corso della pandemia.  Situazioni analoghe sono state riportate, anche se su scala minore, anche per le pandemie del 1957 e del 1968. I ceppi pandemici sono contraddistinti da una maggiore virulenza e  dalla capacità di determinare un danno maggiore, rispetto ai loro cugini stagionali, agli epiteli bronchiali e polmonari facilitando così l’ ingresso e l’ azione dei ceppi batterici. Nel corso dell’ ultima pandemia il riscontro di sovrainfezioni batteriche è stato minore ( 25-56% con una mortalità del 14-46%) rispetto alle precedenti pandemie, ma questo può dipendere da un più frequente e precoce uso di antibiotici ad ampio spettro nelle forme più gravi.

Un problema emergente in questi ultimi anni è quello dei batteri resistenti agli antibiotici. Un esempio emblematico è rappresentato  dalle infezioni stafilococciche che, dopo aver subito una riduzione, sono tornate prepotentemente alla ribalta grazie alla diffusione dei ceppi  meticillino resistenti (MRSA), frequente causa di sovrainfezioni mortali, come nei bambini. Gli stafilococchi sono ospiti innocui che vivono sulla nostra cute e nelle narici, ma causano complicazioni catastrofiche quando si associano all’ infezione influenzale. Durante la stagione 2006-07 negli Usa 11 soggetti su 33 ( 33% ) con polmonite da MRSA, in cui è stata eseguita la ricerca virale, aveva un’ infezione influenzale antecedente.





Il pneumococco ( streptococcus pneumoniae) è un’ importante causa di morbilità e mortalità globale e gli studi degli ultimi anni hanno messo in evidenza la sua frequente associazione con l’ influenza. Il pneumococco colonizza in modo transitorio le superfici mucose delle alte vie respiratorie senza per questo provocare un danno all’ organismo ospite. 8 bambini  su 10 sono colonizzati dal pneumococco in qualche periodo della loro vita, molto meno lo sono gli anziani (10%). Lo sviluppo della malattia invasiva si verifica grazie al superamento delle difese immunitarie di superficie e la disseminazione nella cavità dell’ orecchio medio ( otite), nelle basse vie respiratorie (polmonite), nel sangue ( sepsi) e nelle meningi ( meningiti). Insieme a molti fattori legati all’ ospite, all’ ambiente e a fattori microbici, i virus respiratori, in particolare l’ influenza, risultano avere un ruolo importante nel promuovere l’ attività del batterio. Sebbene i virus stagionali abbiano una minore carica lesiva nei confronti degli epiteli che rivestono le vie respiratorie rispetto ai ceppi pandemici, riescono comunque a favorire l’ azione dei germi patogeni con  modalità che la ricerca ha in parte chiarito in questi ultimi anni.

Nel 2002 McCullers, un pediatra dell’ ospedale di Menphis,   ha messo in evidenza come l’ infezione del virus influenzale seguita, dopo una settimana, dall’ inoculazione del pneumococco portava alla morte il 100% dei topi, mentre questo non avveniva se l’ infezione pneumococcica precedeva quella influenzale. Un possibile meccanismo veniva individuato nella maggiore espressione di un recettore ( PAFr) che facilita l’ attecchimento del batterio. Sempre McCullers nel 2003 ha messo in luce il ruolo dell’ antigene neuraminidasi che, asportando i residui di acido sialico, favorisce l’ attecchimento del pneumococco  e inoltre, secondo uno studio recente, fornisce un nutriente che ne favorisce la proliferazione.

La compresenza del virus influenzale è in grado di risvegliare il batterio dallo stato quiescente in cui si trova all’ interno del biofilm e di attivarne i processi metabolici, consentendogli di raggiungere siti normalmente sterili, anche grazie alla ridotta velocità di clearance mucociliare.

Un ruolo chiave è giocato dagli squilibri del sistema immunitario provocati dall’ infezione virale. Da una parte si verifica  una inibizione delle cellule deputate a difenderci da germi potenzialmente pericolosi, come i neutrofili  e i macrofagi, dall’ altra il virus influenzale scatena una risposta infiammatoria eccessiva, con un’ aumentato reclutamento degli stessi neutrofili  e la produzione di  citochine   e di interferone di tipo I, che rendono le cellule suscettibili all’ attacco microbico, con la mediazione di vari attivatori dell’ infiammazione come i  toll-like receptors (TLR) e le proteine chinasi attivate dal mitogeno (MAP).

Il virus influenzale non solo facilita la colonizzazione e l’ invasione da parte del pneumococco, ma ne favorisce anche la trasmissione tra un soggetto e l’ altro, come dimostrato nei furetti, anche se non è stato chiarito come questo avvenga. L’ effetto  scatenante della malattia influenzale non si limita ai periodi immediatamente successivi all’ infezione, ma si prolunga per parecchie settimane, se non addirittura mesi, a causa della desensibilizzazione delle cellule sentinelle polmonari ai ligandi dei TLR, associata ad una ridotta produzione di citochine.

I germi patogeni non si limitano a trarre beneficio della presenza del virus influenzale, ma ricambiano il favore esercitando un azione di rinforzo  nei confronti dell’ attività virale, ad esempio innescando un processo importante nel ciclo di replicazione virale che consiste nella spaccatura ( cleavage) dell’ emagglutinina ad opera delle proteasi batteriche, come è stato dimostrato con gli stafilococchi,  oppure con la stimolazione da parte delle tossine batteriche della proteina PB1-F2, che ha un ruolo importante nel determinare il processo infiammatorio e nell’ indurre e aggravare la polmonite batterica successiva all’ infezione influenzale. Inoltre  la coinfezione riduce la risposta delle cellule di tipo B con una minore produzione di Ac contro il virus influenzale.

 Tutti questi meccanismi stanno ad indicare che il virus influenzale attiva una cascata di eventi che progredisce con il passare del tempo e  che coinvolge componenti delle nostre difese innate e adattative che, se da una parte portano alla risoluzione del quadro clinico, dall’ altra possono predisporre all’ attacco da parte dei batteri, con il massimo della vulnerabilità  tra il 7° e il 12° giorno. Questo dato si correla con quello epidemiologico delle infezioni invasive da pneumococco nei bambini, nei quali il rischio più elevato si registra a due settimane dall’ infezione influenzale.


Diversi studi hanno dimostrato una correlazione temporale tra l’ epidemia di influenza e malattie batteriche invasive ( in particolare il pneumococco):  nella popolazione dei bambini sudafricani  durante le epidemie stagionali,  nella popolazione di adulti in Spagna nel periodo della pandemia da virus H1N1, ancora  negli adulti per quanto riguarda le malattie invasive e nei bambini limitatamente alle  polmoniti in uno studio sulla popolazione danese, nella popolazione inglese, anche se l' aumento non è stato rilevante.

Negli USA, durante il periodo pandemico, si è verificato un aumento significativo di casi di malattia invasiva, ma non superiore rispetto  alle stagioni influenzali precedenti.

Si è osservato che sono soprattutto i ceppi a basso potenziale invasivo a determinare quadri severi da confezione sia negli adulti sia nei bambini al di sotto dei 5 anni, in particolare in assenza di malattie pregresse.

In realtà, a differenza degli studi sui casi individuali,  la maggior parte degli studi di popolazione non ha dimostrato una correlazione altamente significativa tra epidemie influenzali e malattie pneumococciche invasive e questo ha per diverso tempo sconcertato i ricercatori.
Per chiarire questa apparente contraddizione, un gruppo di studiosi dell’ università del Michigan ha usato un nuovo approccio, riuscendo a dimostrare che l’ influenza aumenta di 100 volte il rischio di polmonite pneumococcica nel singolo individuo. Analizzando i dati delle ospedalizzazioni per influenza e polmonite pneumococcica tra il 1989 e il 2009, ha trovato la prova convincente della maggiore suscettibilità alla complicazione polmonare nei soggetti affetti dall’ influenza nella settimana precedente. Durante i picchi di influenza stagionale il 40% delle malattie pneumococciche è ascrivibile all’ influenza, mentre su base annua tale percentuale varia dal 2 al 10% dei casi.



Nei riguardi della recente epidemia di casi di meningite C in Toscana, un' ipotesi verosimile è che ci possa essere alle spalle l’ epidemia di influenza, che quest’ anno ha colpito in maniera severa  proprio la Toscana, come pure altre regioni italiane.

Del resto  il meningococco, alla pari del pneumococco e di altri germi, è presente spesso come ospite inoffensivo nelle vie respiratorie di molti soggetti (10%) senza essere causa di problemi, a meno che si creino delle condizioni che ne favoriscano la patogenicità, quali quelle che l' influenza è in grado di produrre.   Vi sono degli antecedenti nella letteratura scientifica che documentano come epidemie di meningite a livello di singole istituzioni come strutture per malati  e ambienti militari  o di aree geografiche siano state precedute da epidemie di influenza con infezione documentata da test di laboratorio.

Una verifica sul piano degli studi epidemiologici si è avuta con uno studio in Francia. Lo scorso anno è stato pubblicato un articolo sulla rivista PloS ONE, frutto del lavoro di esperti della CDC, che ha messo in luce come, in 19 stagioni su 20 analizzate, il picco di influenza ha preceduto di ca 2 settimane il picco delle infezioni meningococciche con un’ alta correlazione statistica, soprattutto dopo le epidemie di influenza legate ai ceppi H3N2 e H1N1 stagionali, in misura minore con i virus H1N1-pdm09, B e Respiratorio Sinciziale. Su base annuale si è calcolato che  il 12,8% delle meningiti da meningococco siano da attribuire alla precedente malattia influenzale, durante il picco di stagione tale percentuale sale al 59%.


Il messaggio finale degli autori di questo studio, ma anche quello con cui voglio chiudere questa rassegna, è che la vaccinazione contro il meningococco rimane un’ arma fondamentale di prevenzione, ma altrettanto importante è la vaccinazione contro l’ influenza, soprattutto nei bambini sani.












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