“Non amo fallire, non amo lasciare le cose a metà”. Con
queste parole il ricercatore di origine svedese Johan Hultin, emigrato nello stato americano dell’ Iowa quando aveva 25 anni e che aveva dedicato molte
energie alla ricerca del virus responsabile della pandemia del 1918, esprimeva
il proprio rammarico per non essere riuscito nell’ impresa. Eppure l’ idea di
dissotterrare dei corpi ben conservati nel permafrost dell’ Alaska, suggerita a
Hultin da un noto virologo di nome William Hale, sembrava promettente. Grande è
stata l’ emozione quando, grazie al
permesso della matriarca di un
villaggio che nel 1918 aveva visto più del 90% della popolazione sterminata
dal virus, furono riportati alla luce i
resti di una bambina di appena 12 anni, con i capelli neri intrecciati e
abbelliti da nastrini rossi. Le analisi successivamente compiute sui
resti della bambina e di altre persone disseppellite non portarono però a
nessun risultato. Era l’ anno 1951. Negli anni successivi Hultin si trasferì in
California, dove fece carriera come patologo, ma nel suo animo restava l’
amarezza per l’ insuccesso.
Alla fine degli anni 90 un altro ricercatore,
immigrato dalla Germania negli Stati Uniti all’età di 9 anni a seguito della
famiglia e che all’ epoca conduceva un laboratorio di ricerca presso l’
Istituto Patologico delle Forze Armate ( AFIP), riuscì a pubblicare sulla
rivista Science, dopo che era stato respinto dalla rivista Nature, un articolo
su quella che riteneva una parte della
sequenza dell’ emagglutinina e di altri proteine del virus. Il risultato era
stato possibile grazie all’ impiego di nuove tecnologie di indagine molecolare
su resti di un soldato di nome Roscoe Vaughn, morto il 26 Settembre del
1918 a Camp Jackson, nella Carolina del Sud. Lo scienziato si chiamava JefferyTaubenberger.
Il mondo scientifico accolse tuttavia lo studio con
scetticismo. L’ articolo capitò tra le mani di Hultin, che si rese
immediatamente conto che con l’ aiuto
delle nuove tecniche sarebbe stato possibile resuscitare il suo antico
progetto. Si mise subito in contatto con Taubenberger, che in quel periodo si
trovava in difficoltà per la scarsa disponibilità di materiale di ricerca e gli
assicurò di essere in grado di procurargliene dell’ altro. Hultin tornò
nuovamente in Alaska e questa volta riuscì a riesumare il corpo di una donna
obesa, che soprannominò Lucy ( come lo scheletro di donna trovata nel 1973 e
che aveva permesso di far luce sull’ evoluzione umana). I suoi organi interni,
polmoni, cuore, fegato e reni, erano ben conservati grazie all’ involucro di
grasso che li aveva ben protetti.
Rientrato a casa spedì subito i tessuti a
Taubenberger. Pochi giorni dopo gli arrivò la tanto attesa notizia che era
stato trovato il virus, le cui sequenze si dimostrarono coincidenti con quelle dei soldati. 8 anni più tardi
sarà decifrato l’ intero codice genetico del virus più terribile della storia, che ha contagiato 1/3 della
popolazione del pianeta e ha causato almeno 50 milioni di morti, in quello che
è considerato uno degli eventi più catastrofici nella storia dell’ umanità.
La ricostruzione della composizione del virus, che pure ha
dato un forte impulso alla ricerca, non è però servita a chiarire i molti
misteri che lo circondano. Innanzitutto le sue origini rimangono poco chiare.
Purtroppo nei primi anni del novecento non solo non esistevano gli strumenti
di sorveglianza epidemiologica di cui disponiamo oggi, ma non si conosceva
neppure il virus, che sarà identificato solo nel 1931. E’ probabile che l’
evento iniziale sia stato uno scambio di materiale genetico (quello che in
termini tecnici si chiama riassortimento) tra virus appartenenti a specie
diverse, con un ruolo importante giocato da un virus di tipo aviario. Gli
uccelli selvatici rappresentano il serbatoio principale dell’ influenza e dai
continui incroci tra virus aviari e di altri specie si formano virus dalle caratteristiche mutate, alcuni con la potenzialità di provocare i grandi
eventi pandemici. Non sappiamo neppure da quale parte del mondo sia emerso. L’
ipotesi principale è che abbia avuto origine in Asia, al pari delle due
successive pandemie, forse portata in Europa da 96000 lavoratori cinesi che
lavoravano al servizio delle truppe britanniche e francesi nei vari fronti di guerra,
ma altre ipotesi puntano al Kansas, nella contea Haskell, dove si manifestò uno
dei primi focolai. Quello che sappiamo è che
nella primavera del 1918 il virus iniziò a manifestarsi e poi si diffuse
in modo irregolare negli Stati Uniti, in Europa e probabilmente in Asia, con
focolai circoscritti in cui si segnalavano un grande numero di ammalati ma
senza conseguenze particolarmente rilevanti. Questa prima fase durò circa 6
mesi.
Con uno sforzo della fantasia, proviamo ad immaginare una riunione dell’
OMS, che allora non esisteva ancora,
agli inizi dell’ estate del 1918. All’ ordine del giorno la discussione sull’
opportunità o meno di dichiarare una nuova pandemia, alla luce dei rapporti che
provenivano da varie parti del mondo su un nuovo virus che faceva ammalare
tante persone senza però causare un’ elevata letalità, almeno secondo gli
standard dell’ epoca. Secondo molti pensatori illuminati dei nostri tempi non
si sarebbe dovuto fare un proclama di quel tipo, che avrebbe creato solo un
allarme ingiustificato nella comunità internazionale e tuttavia… arriva l’
autunno successivo e si scatena il
finimondo. Credo che quest’ aspetto meriti una qualche riflessione.
La letalità
schizzò al 2,5%, con punte che arrivarono, in certi paesi, all’ 8-9% mentre altri risultarono meno
colpiti. Cosa abbia causato questo repentino cambiamento costituisce un altro
dei misteri di questo virus. Non si sa
se possa essere imputato alle diverse condizioni socio-ambientali e climatiche
o ad una successiva mutazione. Quest’ ultima ipotesi non può essere asseverata
in quanto gli unici campioni del virus risalgono alla seconda ondata, non ne è
rimasto nessuno risalente alla prima fase. Quello che è certo è che il virus si
diffuse rapidamente in gran parte del mondo, grazie agli spostamenti delle
truppe verso e di ritorno dai vari fronti di guerra. Questa rappresentò
probabilmente la novità più sostanziale rispetto alle epoche più remote in cui
le malattie tendevano invece a propagarsi molto più lentamente, seguendo le
rotte commerciali o i viaggi dei pellegrini e un anticipazione di quella che sarà la modernità, con il
mondo che diventerà sempre più piccolo man mano che le comunicazioni e i trasporti renderanno le diverse parti del
nostro pianeta sempre più vicine. La guerra e le desolazioni e le miserie che
da questa derivarono furono certamente tra gli elementi che contribuirono al
bilancio drammatico. Le truppe, costrette a vivere in condizioni di
affollamento e indebolite dalle condizioni di vita estreme a cui erano
sottoposte, furono decimate dal virus, che però si diffondeva con altrettanta
facilità e con conseguenze non meno gravi nei contesti metropolitani lontani
dagli scenari bellici. Un altro elemento che contribuì grandemente al
drammatico impatto di quella epidemia fu la mancanza di conoscenze e di
strumenti di intervento sanitario che verranno acquisiti solo in periodi
successivi, parliamo di un’ epoca in cui non esistevano ancora gli antibiotici
che avrebbero potuto debellare le frequenti sovrainfezioni batteriche,
le cure di tipo intensivo che consentono al giorno d’ oggi di mantenere in vita
pazienti con stati avanzati di insufficienza respiratoria ed erano solo agli
albori le conoscenze relative alla diffusione e alla prevenzione delle malattie
infettive. Ma le devastazioni della guerra e
le carenze sanitarie non sono in grado di spiegare quello che fu uno
degli effetti più drammatici e che più
ha sconcertato e interrogato le generazioni successive: a subire l’ impatto
maggiore non furono i soggetti fragili come i bambini e gli anziani ma quelli che appartenevano alla classe più
forte e più sana della popolazione, vale a dire i giovani nella fascia tra i 18
e i 30 anni.
Come si vede nel grafico, mentre negli anni che precedono e
seguono la pandemia l’ aspetto è del tipo a “U”, con le estremità che sono le
fasce estreme e l’ avallamento le fasce intermedie della popolazione, nel 1918
l’ aspetto della curva diventa del tipo a “W”, in cui alle due estremità si
aggiunge una terza punta, costituita appunto dai giovani. Il rilevante contributo alla mortalità di
questa classe ha determinato anche un’ anomalia nella curva che rappresenta l’
aspettativa di vita dal 1900 in avanti che, come si vede, cresce in maniera
abbastanza regolare nel corso degli anni ad eccezione del 1918, in cui fa
segnare un significativo arretramento. Le possibili spiegazioni sono diverse.
Un aspetto da mettere prima di tutto in evidenza e che è poco conosciuto
riguarda l’ aggressività del virus della spagnola. Molti sono portati
erroneamente a pensare che ammalarsi con quel virus significasse contrarre una malattia che, se anche non
portava alla morte, comportasse quadri più severi di quelli che conosciamo e sperimentiamo oggi. In realtà
non era affatto così, visto che il 95% delle persone che si ammalavano, almeno
nei contesti più progrediti, avevano quadri indistinguibili rispetto a quelli
delle normali influenze e solo una percentuale relativamente piccola contraeva
forme severe. Quest’ aspetto può suscitare meraviglia, ma in realtà è una delle
ragioni del successo del virus influenzale, anche nelle sue forme più
severe, perché grazie ad esso si
diffonde ampiamente e velocemente. Un ‘ ipotesi che è stata avanzata per
giustificare il tragico bilancio della pandemia è la cosiddetta tempesta di
citochine, che sta ad indicare un movimento incontrollato di componenti
importanti del nostro sistema immunitario che, non riuscendo a contenere l’
infezione, porta ad una risposta infiammatoria talmente smisurata da produrre un
danno consistete all’ organismo. Le persone più giovani avrebbero una maggiore
propensione a questo tipo di fenomeno proprio per la maggior forza delle loro
difese immunitarie. Certamente questo è un meccanismo importante, che è stato
dimostrato anche in anni recenti in relazione ai casi gravi che si sono
verificati, ad esempio con l’ ultima pandemia, ma non è in grado di spiegare
del tutto quello che è successo. Un altro elemento fondamentale, che ha contraddistinto anche tutte le pandemie che
si sono susseguite nel corso del ventesimo secolo, compresa quella recente del
2009, è il cosiddetto age shift, che rappresenta la tendenza dell’ epidemia a
risparmiare gli anziani grazie al “ricordo” di un’ infezione contratta nelle loro età più verdi e a colpire invece
le persone più giovani, che risultano invece del tutto indifese nei confronti
della nuova variante. A questo proposito Worobey, Han e Rambaut hanno avanzato
un interessante ipotesi in un articolo pubblicato nella rivista PNAS (1). Gli autori hanno ricostruito la storia dei ceppi
dominanti a partire dal 1830 e hanno scoperto che nel 1889 si è verificata un'
epidemia, la cosiddetta influenza russa, dovuta al ceppo H3N8. Il virus della
spagnola apparteneva invece al tipo H1N1, che si era costituito dall' unione di
ceppi umani mescolati a ceppi aviari. I nati dopo il 1889 non avevano anticorpi
nei confronti di questo virus. Dopo il 1900 si sarebbe diffuso un altro virus
del tipo H1N1 e questo spiegherebbe perché i ragazzi al di sotto dei 18 anni
siano stati meno colpiti. I giovani tra i 18 e i 29 anni si sarebbero invece
trovati in una finestra di vulnerabilità. Lo
studio si basa sulla scoperta che i geni dell' influenza evolvono a velocità
diverse a seconda delle specie animali. Nei polli le variazioni sono molto
veloci mentre nei maiali molto lente. Tenendo conto di questa differenza e
ricalcolando l' evoluzione dei ceppi di virus per ciascuna delle specie
portatrici, il team di ricercatori ha potuto ricostruire il quadro della letale
epidemia del 1918. Questa non sarebbe stata causata da un'improvvisa
"migrazione" di geni aviari verso il ceppo dell'influenza umana, ma
da uno spostamento progressivo a partire dal 1900. In un ceppo già esistente,
dunque, si sarebbe verificata una variazione nel tipo di emoagglutinina,
rendendo il virus particolarmente virulento.
Quali implicazioni ci possono
essere per il futuro?
Dopo i “falsi allarmi” dell’ influenza aviaria H5N1 e
della pandemia del 2009, che hanno tenuto con il fiato sospeso le popolazioni
mondiali per poi rivelarsi molto meno gravi delle aspettative, si è diffuso
nella gente un sentimento di incredulità e scetticismo che porta a sottostimare
potenziali rischi futuri. In verità è bene non abbassare la guardia perché, se
è vero che il mondo è molto meglio attrezzato nell’ affrontare nuove emergenze
di quanto lo fosse nel 1918, va tenuto presente che le condizioni che possono
portare all’ emergenza di nuovi ceppi virali potenzialmente pericolosi e alla
loro rapida diffusione sono probabilmente maggiori adesso di quanto lo erano agli inizi dello scorso
secolo e le armi che abbiamo a disposizione sono appena sufficienti a
controllare una pandemia di modesta portata come quella del 2009, dove comunque
si è assistito a gravi ritardi e lacune nei sistemi di preparazione e di contenimento. Laddove c’è stato un aumento di poco superiore rispetto alla
media nel numero di casi gravi, anche in paesi non sottosviluppati come in
Australia nel 2009 o in Inghilterra nel 2010, i rispettivi sistemi sanitari
sono stati messi duramente alla prova e sono arrivati al limite del tracollo.
Rispetto al 1918 abbiamo si i vaccini, ma si è visto come la tecnologia di
produzione sia ancora farraginosa e non consenta di renderli disponibili in
tempi utili. Gli antibiotici potrebbero essere in grado di fare la differenza e
certamente potranno farla, ma stiamo attenti al preoccupante fenomeno delle
resistenze che potrebbe renderli armi spuntate. Le tecniche di supporto vitale
sono ugualmente un’ arma importante, ma sono limitate nella loro consistenza numerica e
appena sufficienti a tenere sotto controllo situazioni che si discostino di
poco dall’ ordinario, non sono invece in grado di far fronte a eventi di
portata maggiore. Per tutti queste ragioni è importante potenziare gli
strumenti di sorveglianza, in modo che siano in grado di rilevare con anticipo
sufficiente situazioni di pericolo in qualsiasi parte del mondo si verifichino
e predisporre piani pandemici che si possano applicare concretamente alle
diverse situazioni e che prevedano una fase di preparazione e di coinvolgimento
attivo di tutte le figure deputate alla loro attuazione e non che vengano
calati dall’ alto, come è successo nel 2009, senza che nessuno sappia quali
siano i compiti e i ruoli che spettano
ad ognuna delle parti coinvolte.
Il sogno di Hultin si è alla fine realizzato, ma l' incubo per l' umanità non si è dissolto.
Il sogno di Hultin si è alla fine realizzato, ma l' incubo per l' umanità non si è dissolto.
,
, and Genesis and pathogenesis of
the 1918 pandemic H1N1 influenza A virus PNAS 2014 111 (22) 8107-8112; published ahead of print April 28,
2014, doi:10.1073/pnas.1324197111
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