domenica 28 dicembre 2014

Influenza e mortalità: la lezione (ignorata) del virus di Hong-Kong






L’influenza è una malattia le cui origini risalgono a tempi certamente lontani se già Ippocrate, 2400 anni fa, ne dava una pur sommaria descrizione. Nell’antichità ci si riferiva ad essa come ad una malattia legata all’influenza degli astri ( obscuri coeli influenza). L’influenza si è sempre manifestata con andamento stagionale, con anni caratterizzati da un andamento più o meno mite a cui si intercalano anni con andamento nettamente più severo, in cui  varianti più aggressive tendono a diffondere rapidamente da una parte all’altra del globo. Quest’ultime sono definite pandemie. La prima di cui si hanno notizie certe risale al 1510.  Da notare che fino al secolo scorso queste erano spesso precedute da epidemie similari nei cavalli, che probabilmente rappresentavano un importante serbatoio del virus, data l’ampia diffusione di questa specie, ruolo ricoperto oggi dai maiali che rappresentano spesso l’anello di collegamento tra gli uccelli ( che sono il serbatoio principale) e l’uomo. Dai tempi in cui si è cominciata a monitorare la mortalità nella popolazione, ci si è resi conto che nelle stagioni in cui maggiore era la circolazione della patologia influenzale la mortalità tendeva ad essere più elevata rispetto ai periodi in cui questo non avveniva. Già nel 1847 William Farr, in Inghilterra, ha elaborato un sistema di calcolo dell’ impatto dell’ influenza sulla  mortalità, che otteneva semplicemente sottraendo i morti registrati nelle stagioni relativamente prive di circolazione a quelle rilevate nei periodi epidemici. All’epoca non si conosceva neppure quale fosse l’agente responsabile della malattia, non esistendo neppure il concetto di germi, che saranno identificati solo nei decenni successivi. Il virus dell’influenza verrà individuato prima nei maiali (1931) e poi negli esseri umani (1933).

Se analizziamo l’andamento della mortalità generale nel corso dell’anno, così come viene rappresentata dai grafici, notiamo che ha l’aspetto di onde con dei picchi che corrispondono ai mesi invernali e degli avallamenti ai mesi estivi. Nei mesi invernali la mortalità aumenta, soprattutto a carico delle fasce più anziane della popolazione, per una serie di motivi:



- Le basse temperature. Vi sono studi che dimostrano che il freddo è in grado di aumentare la pressione arteriosa e l’emoconcentrazione del sangue, con maggior rischio di fenomeni trombotici. Inoltre abbassa le nostre difese immunitarie.

- L’ inquinamento. E’ stata documentata una relazione lineare tra i livelli di pm10 e la mortalità.

- L’ aumentata circolazione degli agenti infettivi, tra i quali spicca l’influenza.



A quest’ultima, sulla scorta di ormai numerosi studi epidemiogici, è stato riconosciuto un ruolo importante nel determinare l'eccesso di mortalità della stagione invernale, soprattutto nelle stagioni in cui circolano ceppi originati da  drift e in maniera più marcata con il sottotipo H3N2 rispetto all’ H1N1stagionale.

Se analizziamo le tabelle di mortalità, raramente l’influenza compare come causa di morte. Se esaminiamo ad esempio i dati Istat relativi alla popolazione italiana nel 2011, con la diagnosi codificata di influenza che corrisponde ai codici J10 e J11 ( la seconda voce si riferisce ai ceppi di influenza non tipizzati, non ad altri virus come ho trovato scritto nei siti della pseudoscienza) vi sono appena 400 casi. Il fatto è che il virus si nasconde dietro molti decessi per cause respiratorie, in cui non viene identificato o perché non viene ricercato o perché si attribuisce il decesso a polmoniti generiche o ad altri agenti infettivi a cui l’ influenza fa da apripista. L’ influenza si annida anche dietro molti decessi di altra natura, in particolare le malattie cardiovascolari, in cui il virus direttamente o indirettamente fa precipitare situazioni già precarie per la presenza di precedenti morbilità.  Sono stati elaborati metodi statistici (analisi delle serie temporali o di regressione) che, confrontando le morti attese con quelle osservate e apportando opportune correzioni in base all’andamento della stagione, calcolano quante morti possano essere attribuite annualmente all’influenza. E’ così che si arriva ad una cifra media di 36000 morti negli USA e 8000 in Italia.

Espresso in questo modo il concetto può risultare abbastanza nebuloso e di non immediata comprensione. Ma c’è un esempio della nostra storia recente che può servire a rendere più chiari questi concetti.

Tra le pandemie del 20° secolo quella del 1968 è considerata la più blanda e caratterizzata da un impatto certamente più lieve rispetto alle due che l’hanno preceduta. Lasciando stare la pandemia del 1918, che è stata forse un’ unicum nella storia di questa malattia per le sue devastanti conseguenze, la pandemia del 1968 è stata molto più blanda di quella del 1957 (H2N2), che aveva fatto registrare quasi 4 milioni di decessi, forse perché il virus si presentava solo parzialmente modificato, mantenendo lo stesso tipo di antigene neuraminidasi (N2) e cambiando solo la componente emagglutinina (H3). Fatto sta che  i contemporanei non si sono quasi accorti del suo impatto e il bilancio finale è risultato piuttosto contenuto, paragonabile a quello dell’ ultima pandemia del 2009 e superiore a questa solo in quanto una parte più rilevante dei decessi ha riguardato la fascia più debole degli anziani, che nell’ultima pandemia sono stati in larga parte risparmiati.
 In Italia, come è avvenuto anche in Europa, la stagione maggiormente colpita non è stata quella in cui ha fatto la prima comparsa il virus ma la successiva, da dicembre del 1969 alla primavera del 1970. All’epoca ero solo bambino e non ho ovviamente ricordi relativi a quel periodo, ma ho interpellato diverse persone tra cui mio fratello, all’epoca studente della facoltà di medicina, chiedendo loro se era rimasta nella memoria il ricordo di un anno particolarmente severo. La risposta è stata negativa o, come testimoniato da mio fratello, ha rievocato un anno con tantissima influenza e tante assenze nelle aule e nei luoghi di lavoro, ma nessuna altra  conseguenza di rilievo. Nella memoria collettiva della nostra gente non è rimasto il ricordo di una stagione drammatica. Ebbene nel 2007, a distanza di quasi 40 anni da quegli avvenimenti e appena 2 anni prima della pandemia del 2009, è stato pubblicato uno studio (1) ad opera di esperti della CDC di Atlanta e membri dell’Istituto Superiore di Sanità italiano sulla mortalità negli anni che vanno dal 1970 in poi, in cui si è evidenziato un quadro inaspettato.




Nella curve di mortalità  si nota un anno in cui si è registrato  un picco che ha oltrepassato nettamente tutti gli altri, che corrisponde proprio alla stagione dominata dal virus pandemico. L’ eccesso di morti rispetto alla curva basale (costruita in base all’ andamento dei periodi in cui non circola l’ influenza) è stato pari a 20000 per cause respiratorie e ben 57000 per tutte le cause. Una tipica stagione influenzale dura 8-10 settimane, tradotti in cifre significa 7-800 morti in più OGNI GIORNO. L’ aumento ha riguardato non solo la fascia di popolazione degli anziani ma anche quella degli adulti e dei bambini. La proporzione dei decessi nelle persone al di sotto dei 65 anni è stata 3 volte più alta rispetto a tutte le stagioni di normale epidemia. Rispetto alla stagione che ha fatto registrare un numero di morti subito inferiore (1974-75), la mortalità nella fascia 0-7 anni è stata 7 volte più elevata, 4 volte nelle fasce 15-44 e 45-64 e “solo” 2 volte nella fascia >65. Ci possono essere altre spiegazioni di un numero così elevato di decessi? Non è stato un inverno particolarmente rigido o contrassegnato da livelli di inquinamento che possano giustificare tale differenza. Non risulta che abbiano circolato altri agenti infettivi e comunque  non ve ne sono che possano essere associati ad un simile andamento. L’ unica “novità” della stagione è stata la circolazione di un virus influenzale con caratteristiche mutate, anche se non in maniera sostanziale, rispetto al precedente.  Questo quadro si riferisce non ad un periodo di arretratezza economica, anche se la differenza Nord-Sud era probabilmente più marcata rispetto ai nostri tempi. Parliamo dell'Italia degli anni subito successivi al boom economico, con gli iniziali fermenti post-sessantottini che avrebbero poi aperto la strada alla stagione del terrorismo, ma con uno stato di benessere e di sviluppo già abbastanza consolidato. Non esisteva ancora internet, ma la televisione e la carta stampata erano mezzi che portavano le informazioni in tutte le case. Eppure si è manifestato un evento di tale portata senza che ci sia stata consapevolezza di quello che accadeva  e senza che sia rimasta traccia nella memoria del nostro popolo. E’ come se tutte queste morti fossero state invisibili. Questo è un esempio, che possiamo definire limite, di quello che può fare il virus influenzale, che ogni anno miete migliaia di vittime senza che le persone che vivono intorno ad esse si rendano conto di quella che è la causa sottostante: morti per polmonite, per ictus, per infarto, per complicanze del diabete e per molte altre cause nelle quali l’influenza non è neppure sospettata pur avendo avuto un ruolo significativo.

1)  Rizzo C., Bella A., Viboud C., Simonsen L., Miller M. A., Rota M. C., Salmaso S., Ciofi degli Atti M. L. "Trends for Influenza-related Deaths during Pandemic and Epidemic Season, Italy, 1969-2001". Emerging InfectiousDiseases Vol 13, N. 5, May 2007



             




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