Sono molte le leggende che accompagnano gli avvenimenti relativi alla pandemia di Covid-19. Una di quelle più ricorrenti, rilanciata non solo dagli esperti da tastiera ma anche da seri professionisti che si cimentano con scarsi risultati in campi che non sono di loro competenza, è che i virus pandemici abbiano una sorta di orologio che ne decreti la fine entro, al massimo, uno o due anni. A sostegno di questa tesi viene portato l’esempio dell’influenza del 1918, la famigerata spagnola, che per alcuni sarebbe addirittura sparita dopo 2 anni. In realtà il virus H1N1, responsabile di quella terribile pandemia, pur perdendo la sua forza ha continuato a circolare fino al 1957, quando ha lasciato il posto al virus H2N2. Ma non ci ha lasciato del tutto, perché la sua progenie è rimasta vitale fino ai giorni nostri nelle popolazioni dei maiali ed è poi riemersa in ambito umano, grazie ad una ricombinazione con virus aviari e umani, dando origine al virus H1N1 del 2009. Un virus assai pericoloso, nonostante si sia affermato il contrario, che aveva la potenzialità di provocare drammi non inferiori all’attuale pandemia, se non fosse stato per l’ombrello che ha protetto gli anziani, venuti in contatto in gioventù con i discendenti diretti del virus del 1918. Ma il virus del 1918 non ha smesso di provocare sofferenze e lutti dopo l’ultima ondata del 1919, lo farà ancora, sia pure in modo più circoscritto, in una stagione a noi più vicina. Ma di questo parleremo più avanti.
Un virus pandemico si forma quando emerge un nuovo virus, con caratteristiche profondamente diverse rispetto a quelli circolanti, tale da renderlo non riconoscibile da parte del sistema immune di tutta o di una parte consistente della popolazione umana. Tradizionalmente questo fenomeno era considerato appannaggio dei virus influenzali, in quanto sono diffusi in molte specie del regno animale, dagli uccelli ai mammiferi. Grazie a processi di rimescolamento (riassortimento) del materiale genetico di virus di origini diverse in animali che fungono da cosiddetti mixing vessel, un tempo i cavalli, negli ultimi due secoli i maiali, danno vita a virus con un riarrangiamento sostanziale del loro patrimonio genetico (shift), in particolare di quello che codifica per le proteine di superficie. Caratteristiche peculiari del virus pandemico sono quelle di essere un virus completamente nuovo, in grado di infettare un numero elevato di persone, di colpire settori della popolazione solitamente risparmiati (age shift), come i giovani (1918) o gli adulti non anziani (2009), di poter colpire con ondate più o meno ravvicinate e ripetute anche a distanza di anni e di avere le potenzialità (che non sempre si realizzano) di provocare severi sconquassi in termini di perdite economiche, sociali e soprattutto di vite umane.
Paradigmatico in questo senso è il comportamento del virus H1N1 del 2009, che è nato grazie alla ricombinazione di virus suini nordamericani e eurasiatici, con componenti aviarie e umane, un bel collage che ha messo a dura prova il mondo, anche se le conseguenze non sono state così devastanti come si temeva. Il virus ha però determinato un coinvolgimento importante della fascia di età compresa tra i 40 ed i 60 anni, che ha rappresentato l’80% delle vittime a livello mondiale. È apparso nella primavera del 2009, sembra nel paesino di La Gloria in Messico, in un’area dove ci sono molti allevamenti di maiali, da cui si ritiene sia emerso e da cui ha ricevuto il nomignolo che lo ha reso famoso.
Il virus si è manifestato con un
numero insolitamente elevato di casi, una parte dei quali severi, nel corso
dell’estate, in particolare nell’emisfero sud, in nord-America ed in
Inghilterra. Successivamente ha colpito con grande impeto nell’autunno, in
netto anticipo rispetto ai tempi della normale influenza. Nell’agosto del 2010
l’OMS, con un laconico comunicato che lasciava trapelare l’imbarazzo per le
numerose accuse
che le erano piovute addosso e che avevano spinto ad affidare
ad un comitato di esperti il compito di dare un giudizio sulla gestione degli
eventi, dichiara la fine della pandemia. In Italia, come in molti altri paesi
del mondo, ci si è affrettati a dire che quella pagina andava archiviata e che
quella subentrante sarebbe stata una stagione “normale”. I vaccini accumulati,
almeno la quota che era stata consegnata, sono stati destinati a paesi del
terzo mondo o sono finiti al macero. Purtroppo
ogni memoria del nostro passato, anche recente, era andata persa. Ci si è
dimenticati della lezione del 1968, quando si è manifestata, a soli 11 anni
dalla precedente, una nuova pandemia (detta di Hong-Kong), che ha avuto un
andamento molto blando in Europa nel corso del primo anno, a differenza
dell’Asia e del nord-America. L’anno successivo si è invece abbattuta con molto
maggior vigore,
come testimoniano sia le cronache che i dati Istat sulla mortalità, che ha raggiunto cifre elevatissime in quell’anno, in particolare nelle fasce più giovani della popolazione, compresi i bambini.
Negli anni seguenti sono usciti importanti articoli di scuola americana che hanno ben caratterizzato gli aspetti delle pandemie influenzali e hanno messo in luce la possibilità di ondate non solo ravvicinate, ma anche distanziate di anni, come nel caso della pandemia del 1957
che ha determinato ondate fino a 5 anni di distanza dalla prima. Inoltre hanno messo in guardia dalla possibilità che i virus pandemici potessero esplicare i propri effetti fino a 10 anni dal loro esordio, con la raccomandazione di proteggere le fasce di età al di sotto dei 65 anni per tutto questo lasco di tempo. Parole che sono cadute nel vuoto. La pandemia del 2009 è tornata a bussare alle porte dei paesi europei con prepotenza anche nel 2010-11, con una stagione altrettanto o addirittura, come in Inghilterra, più severa di quella che l’aveva preceduta. Così è stato in varie parti del mondo negli anni successivi e l’Italia è stata testimone di diverse ondate di ritorno, con ricadute severe in termini di ospedalizzazioni e morti, l’ultima 10 anni dopo il primo anno pandemico, con una scia di centinaia di vittime.
E' triste constatare come tra queste si debbano annoverare molte persone che nessuno ha avuto la premura di avvisare e a cui non è stata fatta offerta attiva del vaccino perché di età inferiore a 65 anni e in assenza di patologie.
Ed ecco che il mondo è alle prese con una pandemia che ha visto emergere un nemico inaspettato, non perché sconosciuto, avendo avuto le esperienze precedenti della Sars e della Mers, ma perché nessuno aveva previsto che un virus di quella famiglia fosse in grado di mettere alle corde il mondo intero, alla pari dei grandi virus influenzali del passato, pur con importanti diversità per caratteristiche epidemiologiche, cliniche e per la popolazione target. Sicuramente un nemico in più da cui dovremo guardarci nei prossimi anni, perché non possiamo illuderci che tutto possa finire entro breve tempo. Non è così per le falangi del pensiero ottimista, che hanno sempre invitato a guardare con fiducia all'immediato futuro, all’inizio perché l’ondata sarebbe stata unica (ricordate il virus diventato “buono”?), poi perché la successiva si sarebbe attenuata da sola per motivi indipendenti dalle misure adottate, ma che avevano più a che fare con un andamento "intrinseco" del motore epidemico, che man mano perderebbe la sua energia. Adesso scommettono su una conclusione entro l’estate, galvanizzati da una campagna di vaccinazione che, iniziata timidamente, dovrebbe nei prossimi mesi procedere a gran ritmo. Il vaccino rappresenta certamente un’arma formidabile, in grado di cambiare le carte in gioco e di volgere a nostro favore la battaglia contro il coronavirus. Ma vincere una battaglia non significa vincere la guerra. Per quanto ci possano essere molti punti a favore dell’arma di cui disponiamo, soprattutto un'efficacia molto elevata nei confronti dei ceppi attualmente circolanti e una probabilità molto più alta rispetto al 2009 di raggiungere livelli di copertura elevati, abbiamo delle importanti sfide davanti a noi. Il virus ha dimostrato delle notevoli capacità di adattamento e di trasformazione, superiori rispetto a quelle che erano le attese, che parlavano di un agente piuttosto stabile.
Non che le modifiche siano state numericamente molto elevate o tali da divergere nettamente rispetto alle linee originali, ma i cambiamenti hanno interessato parti strategiche che riguardano l’affinità di legame al recettore, che si traduce in una maggiore contagiosità e forse anche severità e nella capacità di evadere la risposta immunitaria elicitata da infezioni precedenti, come sembra che sia avvenuto con le varianti in Sudafrica e Brasile. Al momento, i vaccini già in commercio hanno un’efficacia nettamente superiore rispetto ai classici vaccini influenzali e sembrano garantire una buona copertura anche nei confronti delle nuove varianti, almeno alcuni, ma non possiamo farci illusioni, perché il virus ha le potenzialità di sfuggire anche alla loro azione, rendendo necessario un loro costante aggiornamento per tenere il passo delle variazioni. Ma c’è anche da considerare il problema di larghi strati della popolazione che non potranno essere raggiunti dalla vaccinazione perché appartenenti a parti del mondo svantaggiate, dove il virus potrà circolare indisturbato, permettendogli di sviluppare nuove varianti. Anche nel mondo occidentale evoluto c’è il problema della crescente opposizione nei confronti della pratica vaccinale, con una percentuale della popolazione contraria per principio, quantificabile in ca il 20-30% e un’ampia area di persone “tiepide” su cui le campagne denigratorie possono fare presa, tanto più quanto più la minaccia del virus è destinata ad attenuarsi nel corso delle prossime stagioni, allorquando si dovessero rendere necessari dei richiami.
Tutti questi aspetti, insieme a quello che abbiamo appreso dalle pandemie di influenza, non inducono ad essere ottimisti su una rapida conclusione della pandemia. E' più logico attendersi che avremo diversi anni in cui si alterneranno momenti di tregua sempre più lunghi con ondate di ritorno meno forti delle prime, ma che in aree più o meno circoscritte potranno comunque mettere alla prova i sistemi sanitari e che obbligheranno a ripristinare localmente le misure di mitigazione. Dopo un certo numero di anni, che è difficile quantificare, presumibilmente da 5 a 10, il virus assumerà le caratteristiche dei virus stagionali e non rappresenterà più un minaccia per la tenuta dei sistemi sanitari, ma sarà comunque un agente in più da cui dovremo guardarci e su cui bisognerà esercitare una continua sorveglianza per il rischio dell’emersione di nuove varianti più insidiose sia di origine umana che animale, a causa di sempre possibili spill-over o di ricombinazioni tra ceppi di diversa provenienza.
E veniamo al virus che è stato definito defunto, quello del 1918. Nel corso di tre ondate ravvicinate ha seminato devastazione e morti, che si sono sommate a quelle della prima guerra mondiale. Alcune ondate localizzate sono state descritte fino ad aprile 2020 e poi è andato alla “deriva” senza creare più grandi problemi, con stagioni altalenanti ( una particolarmente severa nel 1943-44 negli USA), come accade con l’influenza di oggi. Fino ad arrivare all’inverno del 1951. In tutto l'emisfero settentrionale, l'inverno 1950-1951 è stato un anno influenzale medio, con il ceppo dominante denominato ‘scandinavo', che produceva una lieve malattia nella maggior parte delle sue vittime. Ma nel dicembre del 1950, quando i futuri Beatles muovevano i primi passi nel mondo musicale, un nuovo ceppo virulento di influenza apparve a Liverpool e nella tarda primavera si era diffuso in gran parte dell'Inghilterra, del Galles e del Canada. L'epidemia di influenza del 1951 (A/H1N1) ha causato un numero di morti insolitamente alto in Inghilterra,
in particolare, le morti settimanali a Liverpool superarono persino quelle della pandemia del 1918. Il motivo per cui questa epidemia è stata così grave in alcune aree ma non in altre rimane sconosciuto e mette in evidenza le principali lacune nella nostra comprensione dell'influenza interpandemica. A Liverpool, dove si dice abbia avuto origine l'epidemia, è stata la causa del più alto numero di morti settimanali, a parte i bombardamenti aerei, nei registri delle statistiche della città, dalla grande epidemia di colera del 1849. Per circa 5 settimane Liverpool ha visto un incredibile picco di morti a causa di questa nuova influenza. E non ha riguardato solo Liverpool. Anche se sembra non essersi diffuso facilmente come il ceppo scandinavo dominante, è riuscito a interessare vaste aree di Inghilterra, Galles e Canada nei mesi successivi. Durante il gennaio 1951, entro 2-3 settimane l'epidemia si diffuse da Liverpool a tutto il resto del paese. Per il Canada, la prima segnalazione di malattia influenzale è arrivata la terza settimana di gennaio da Grand Falls, Terranova. Entro una settimana, l'epidemia aveva raggiunto le province orientali e l'influenza si è successivamente diffusa rapidamente verso ovest. Per gli Stati Uniti, dal febbraio all'aprile 1951 nel New England furono segnalati aumenti sostanziali delle malattie influenzali e dei decessi in eccesso, a un livello senza precedenti dalla grave stagione influenzale del 1943-44. Epidemie molto più lievi si sono verificate in primavera in altre parti del paese. Molto eloquente è il grafico che mostra i tassi di mortalità in Inghilterra e Galles tra il 1950 e il 1971, che incorpora l'epidemia del 1951 e le pandemie del 1957 e del 1968. Come si può vedere, l'evento "stagionale" del 1951 è stato più grave delle due pandemie 'ufficiali'.
Con l’influenza, come probabilmente con l’attuale coronavirus, meglio non pronunciare mai la parola “finita”, se non altro per scaramanzia.